(DIRE) ROMA – Non tutte le neoplasie sono uguali, non tutte possono essere guardate con speranza di cura e ricerca efficace. Tra i segmenti di cure oncologiche che attendono novità con ansiosa attenzione, sicuramente si posiziona quello del cancro al pancreas, uno dei tumori più difficili e complessi, con un‘aspettativa di vita a 5 anni davvero bassa (circa il 7,2%).
Tra i tumori in costante aumento, quello al pancreas fa segnare in Italia circa 13.500 nuovi casi all’anno (dati: I numeri del cancro in Italia, Aiom e Airtum), cifra che rappresenta circa il 4% di tutti i tumori incidenti tra maschi e femmine. L’andamento temporale dell’incidenza di questa neoplasia è in crescita più significativa tra gli uomini e rappresenta un’incidenza maggiore nell’Italia settentrionale rispetto alle altre aree del Paese. Abbiamo dialogato con Michele Reni, coordinatore dell’area Scientifica dell’Oncologia Medica dell’Ospedale San Raffaele di Milano, per comprendere quali siano le effettive possibilità terapeutiche offerte in questo segmento oncologico, anche alla luce dei lavori del recente meeting americano Asco, tenutosi alcune settimane fa a Chicago.
– Dottor Reni, nell’ambito del tumore al pancreas, quali sono le maggiori novità, anche in riferimento al recente meeting Asco? Possiamo continuare a considerare il carcinoma pancreatico come una delle neoplasie “senza appello” o qualcosa si sta muovendo? Le speranze suscitate da alcuni farmaci innovativi – ad esempio Abraxane (Paclitaxel), con dati di sopravvivenza confortanti – sono confermate?
In generale, il carcinoma del pancreas resta la patologia tumorale a peggiore prognosi tra i tumori solidi. Tuttavia, da venti anni a questa parte si assiste a continui piccoli progressi che, fino a poco tempo fa, provenivano pressoché esclusivamente dalla ricerca indipendente e quindi senza la grande risonanza mediatica degli sviluppi più recenti. I dati di sopravvivenza di Abraxane – farmaco da lei citato – hanno confermato quanto precedentemente osservato dagli studi accademici non a scopo di lucro.
– Lo studio su Abraxane è quindi oggi un punto di riferimento per clinici e pazienti. Quali sono i suoi elementi chiave?
I meriti dello studio su Abraxane sono quello di aver fornito un’ulteriore risorsa terapeutica (con pari dignità rispetto a quelle precedentemente disponibili) che ha implementato un armamentario risicato; quello di aver attirato l’attenzione mediatica su una patologia orfana e negletta; quello di aver stimolato molte aziende ad investire nel settore; quello di aver promosso numerose iniziative anche a livello europeo che potranno consentire in futuro un più rapido progresso.
– L’immunoterapia – grande protagonista a Chicago – sta offrendo novità sostanziali anche in questo ambito? Inoltre: sempre ad Asco si intuisce che la chiave per l’immediato futuro per molte neoplasie sia la “combinazione” tra approcci terapeutici vecchi e nuovi (chemio, radio, immuno…..): questa affermazione ha senso anche per il tumore al pancreas?
Anche da questo punto di vista, il tumore del pancreas sembra comportarsi in modo differente dalle altre neoplasie. E’ prematuro trarre conclusioni affrettate in questo settore dove gli studi sono ancora in fase molto preliminare. Al momento, solo un piccolissimo sottogruppo di pazienti (1-2%) potrebbe forse beneficiare di questi trattamenti, ma occorre attendere le decisioni in merito delle autorità regolatorie.
– Quale contributo stanno offrendo gli specialisti italiani nel settore?
La ricerca italiana è particolarmente attiva ed efficace in tutti i settori delle neoplasie, incluso quello delle neoplasie pancreatiche. I centri italiani sono sempre ai primi posti a livello mondiale per il contributo apportato agli studi internazionali e per la qualità dei dati prodotti. Come dappertutto, è purtroppo sempre più difficile la strada degli studi indipendenti per l’esiguità dei fondi pubblici disponibili per studi clinici.
– Di fronte a neoplasie particolarmente aggressive o rivelate soprattutto in fase metastatica, l’alleanza tra clinici, pazienti, famiglie e caregiver può essere elemento chiave per l’affronto della malattia e del periodo delle terapie?
Sicuramente il rapporto e la comunicazione tra tutte queste figure non può che produrre risultati utili nell’interesse dei malati. Un ruolo sempre più rilevante e determinante verrà ricoperto in futuro dalle associazioni di pazienti e parenti specifiche per la malattia. La peculiarità dei problemi correlati ai tumori del pancreas può essere meglio compresa e affrontata da chi è direttamente e personalmente coinvolto e colpito da questa malattia. Fortunatamente, stanno nascendo in questi anni alcune associazioni per pazienti affetti da tumore del pancreas che si sono recentemente confederate nel Nastro Viola.
– Il tema della prevenzione primaria è uno degli argomenti forti per le politiche sanitarie sulle neoplasie; si parla molto di stili di vita, di alimentazione, di attività fisica. Anche per il pancreas questi fattori possono essere comportamenti virtuosi di prevenzione?
Le indicazioni dell’Oms relative agli stili di vita sono applicabili anche ai tumori pancreatici. Purtroppo, la storia del fumo di sigaretta che ancora coinvolge il 30% circa della popolazione italiana, soprattutto tra i più giovani, dimostra l’inefficacia delle politiche sanitarie ed educative finora attuata e vanifica i risultati della ricerca eziologica.
– Uno degli elementi critici nell’attuale approccio delle politiche sanitarie verso l’innovazione è la sostenibilità delle cure; come può oggi il Ssn equilibrare la necessità di cure avanzate e innovative, con la carenza attuale di risorse, visto che le risposte puramente economicistiche al problema sembrano incostituzionali (art. 32) oltre che clinicamente ed eticamente non accettabili?
La questione è estremamente articolata e complessa. Le risorse economiche sono limitate e certamente occorre che la politica definisca in che modo utilizzarle, anche a costo di scelte a volte impopolari. Un possibile approccio sarebbe quello di ridurre gli sprechi – in parte attribuibili ad un improprio utilizzo delle risorse, alla carenza di controlli di qualità, alla mancata individuazione di centri di riferimento per le patologie rare e di difficile gestione clinica – e utilizzare invece le risorse per fornire a più persone le cure considerate efficaci. Occorre perciò stabilire dei criteri condivisi per definire l’efficacia di una terapia, o di qualsiasi strumento diagnostico, e attribuirle il valore anche economico corretto.