ROMA – “Più che di psicosi collettiva si dovrebbe parlare di episodio psicotico temporaneo, durante il quale la mente dei singoli spettatori è stata attraversata da una paura enorme, un terrore completamente irrazionale che ha azzerato la capacità di lettura della realtà”. Lo dichiara all’agenzia Dire lo psicoterapeuta Luciano Peirone, autore del libro ‘La vita ai tempi del terrorismo, la psicologia e la fiducia per gestire la paura‘, commentando quanto avvenuto a Torino durante la finale di Champions League. – I fatti di piazza San Carlo sono quindi da addebitare a un attacco di panico? “Sì, si tratta di questo. E ciò perché di fronte a una paura ai massimi livelli, il terrore appunto, si perde la testa. In queste situazioni agiscono soltanto gli istinti primordiali, che possono essere di due tipi: il combattimento o la fuga. Ma non essendoci un nemico reale, l’unica scelta è stata la fuga, che ha poi determinato l’effetto mandria. La folla infatti è una bestia molto grezza, e di fronte a un pericolo – non importa se piccolo o grande, se reale o immaginario – tende a reagire in modo irrazionale. Il primo si muove e gli altri gli vanno dietro determinando calca, calpestio e feriti, come purtroppo è accaduto”.
Cosa differenzia l’attacco di panico dalla psicosi?
“Quest’ultima- aggiunge il docente dell’Università di Brescia (Unibs)- rappresenta la malattia mentale pesante e riguarda una percentuale di popolazione molto piccola. Non è quasi mai collettiva, al massimo riguarda le relazioni di coppia o familiari, questi i contesti in cui si sviluppa”.
Nel libro ‘La vita ai tempi del terrorismo’ Peirone sostiene che il messaggio “non cambieranno il nostro stile di vita”, rivolto ai terroristi, è fuorviante.
“Si tratta- spiega l’autore- di una rassicurazione semplicistica, una frase che i governanti ripetono spesso sottovalutando però un aspetto. Sono d’accordo che lo stile di vita non deve cambiare, ma le persone, i cittadini, devono però riuscire a cambiare dentro. È questo quello che sosteniamo noi psicologi, perché altrimenti la prossima volta si ricascherà nello stesso errore, nella stessa dinamica generalizzata. Chi viene colpito, che muoia, che venga ferito o solo shockato, è una persona che non è stata adeguatamente preparata a rispondere a situazioni eccezionali di emergenza. È necessario– prosegue lo studioso- che la popolazione conosca un pizzico di psicologia per poter identificare le emozioni di base della paura, dell’angoscia e del terrore. In più, bisogna anche comprendere come è fatto dentro il terrorista. Più io conosco le sue caratteristiche mentali, più le rielaboro con le emozioni giuste e più riesco a fronteggiarlo. È un discorso di prevenzione e, appunto, di resilienza della comunità. Gli amministratori pubblici dovrebbero in qualche modo costruire questa ‘corazza’ attraverso un intervento psicologico, anche minimale, che sia però rivolto a tutti”.
Ci sono meccanismi da poter mettere in atto per poter gestire il panico?
“Per prima cosa, durante un attentato o una situazione di panico come quella di Torino, non bisogna perdere il contatto con la realtà. È importante cercare di rimanere freddi, razionali e logici, non facendosi travolgere dalle emozioni negative aggrappandosi invece a quelle positive, che sono basate sulla fiducia in se stessi, sull’autostima e sul coraggio. Ma queste cose- sostiene lo psicoterapeuta- devono essere capite e ‘allenate’, non si possono certo mettere in pratica all’istante”.
Come si può costruire questo supporto psicologico? Lei cosa suggerisce?
“Se parliamo di terrorismo, tutti quanti dovrebbero imparare a conoscere se stessi e le proprie emozioni, ma anche – come dicevo prima – il fenomeno del terrorismo e la personalità del terrorista. Più so interpretare il pericolo, più lo padroneggio. Conoscere e comprendere è già il primo gradino per poter intervenire. In primis dentro di sé, poi attraverso comportamenti materiali esterni all’io. Occorre quindi iniziare modificando la propria percezione. Una cosa che fanno i pazienti in psicoterapia, non certo il normale cittadino. Ed è per questo che i politici e le autorità dovrebbero dar vita a processi di informazione e sensibilizzazione, per formare cioè un minimo di personalità resiliente in tutti quanti, a partire dai bambini. Il senso di questa macro-azione è insegnare la psicologia dell’emergenza per indicare preventivamente qual è l’atteggiamento da tenere durante l’evento pericoloso. Questo ruolo- dichiara l’esperto- richiede competenze tecniche. Ci vuole lo psicologo dell’emergenza, il quale con una azione capillare-collettiva deve andare a instillare alcune regolette di base, per poter modificare la personalità dell’utente medio in modo da infondergli degli anticorpi”.
Nel titolo del libro dello psicoterapeuta Luciano Peirone compare anche la parola “fiducia”, considerata come strumento per gestire la paura e fronteggiare il male.
“Questo termine riassume tutto il discorso fatto fin qui. Capire, infatti, significa anche agire. Prima di tutto- consiglia lo psicoterapeuta- viene la comprensione, che comunque è già un’azione, è già conforto, è già fiducia, è già rassicurazione. Fiducia in questo senso significa avere fede in se stessi e nell’altro, nel proprio vicino e nella famiglia, nella comunità così come negli amministratori. Tutto questo è di fondamentale importanza perché nel mondo occidentale viviamo un momento storico dove la fiducia risulta fortemente incrinata. L’abbiamo persa per la troppa iper-competitività. Ci si guarda in cagnesco, siamo diventati diffidenti e sospettosi, rabbiosi e aggressivi, e quindi la fiducia– conclude- si è quasi azzerata. Bisogna assolutamente recuperarla: è questo lo strumento per potenziare la persona di fronte a qualunque evento traumatico”. DIRE
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