Chi soffre di fibrillazione atriale è maggiormente esposto al rischio ictus. Ecco perché curando questa aritmia è possibile ridurre di molto le probabilità che ciò si verifichi. E’ questo, in estrema sintesi, uno dei principali messaggi promossi da Federazione A.L.I.Ce. Italia Onlus nel mese dedicato all’ictus cerebrale. Ma se eliminare i fattori di rischio rappresenta il principale obiettivo, ancora molto rimane da fare affinché su tutto il suolo nazionale siano presenti strutture adeguate a trattare questo tipo di eventi quando si verificano.
Che cos’è l’ictus cerebrale?
L’ictus è un’ostruzione a livello cerebrale delle arterie che garantiscono il corretto flusso di sangue al cervello. Quando ciò accade le aree a valle del blocco non possono essere sufficientemente irrorate e, con il passare del tempo, vanno incontro a morte cellulare. Ecco perché bisogna intervenire il prima possibile per evitare danni permanenti e la morte stessa. Non è un caso che l’ictus sia la prima causa di invalidità, la seconda per la demenza e la terza per la morte.
Ictus e fibrillazione atriale: un legame pericoloso
«I fattori di rischio noti per l’ictus -spiega Mauro Silvestrini, Responsabile della Stroke Unit dell’Azienda Ospedaliero Universitaria Ospedali Riuniti di Ancona e presidente di regione Marche di A.L.I.Ce. Italia Onlus- sono diversi. Ai più conosciuti come l’ipertensione, l’obesità, il fumo, l’ipercolesterolemia, il diabete e molto altro, la fibrillazione atriale rappresenta ne rappresenta uno dei principali».
Tecnicamente si tratta di un’anomalia del battito cardiaco e con circa 500 mila casi in Italia e 60mila nuove diagnosi ogni anno si tratta del disturbo del ritmo cardiaco più diffuso. Ma cosa lega un difetto del battito all’ostruzione delle arterie cerebrali? «Nella fibrillazione atriale il cuore, battendo in maniera irregolare, non riesce a pompare adeguatamente il sangue che tende così a ristagnare nell’atrio formando dei coaguli» spiega Silvestrini. Un evento particolarmente pericoloso poiché il coagulo può staccarsi e andare direttamente ad ostruire un vaso a livello cerebrale causando l’ictus. Ad oggi si calcola che tra il 20 e il 30% degli ictus siano causati proprio dalla fibrillazione atriale.
Ridurre il rischio: eliminare la causa o tenere fluido il sangue
Come fare dunque ad evitare che ciò si verifichi? «La terapia maggiormente utilizzata -prosegue l’esperto- si basa sulla somministrazione di anticoagulanti in grado di tenere fluido il sangue evitando la formazione dei trombi». Ad oggi fortunatamente, complice lo sviluppo di molecole ad azione sempre più mirata, è possibile ridurre al minimo i rischi dovuti alle emorragie che si possono verificare nel caso il sangue sia troppo fluido. Quando però ciò non basta -circa un terzo dei pazienti con fibrillazione atriale non sempre possono assumere anticoagulanti- la chirurgia può venire in soccorso. Ciò accade inserendo a livello dell’auricola sinistra -la zona dell’atrio dove è maggiore il ristagno di sangue- una sorta di tappo capace di isolare l’area.
Quando la prevenzione non basta: ospedali non sempre all’altezza
Cosa fare invece quando l’ictus si verifica? Di fondamentale importanza è il fattore tempo: ogni minuto perso equivale ad un giorno di vita in meno goduto in buona salute. Oggi fortunatamente, a differenza del passato, gli ictus fanno meno paura. Accanto alle terapie farmacologiche gli interventi con approccio endovascolare hanno contribuito a fare un salto di qualità nei trattamenti.
Quando una persona arriva all’ospedale con un ictus in corso viene subito sottoposto a trombolisi, una procedura farmacologica per sciogliere il coagulo di sangue che causa l’ostruzione. In alcuni casi, però, circa il 30% degli ictus, grandi coaguli che ostruiscono le arterie maggiori, necessitano di una rimozione meccanica attraverso un catetere. «Tutto ciò può essere fatto solo in strutture dotate di stroke unit, unità operative dedicate al trattamento degli ictus. Nel nostro Paese finalmente qualcosa comincia a muoversi e il numero di strutture sta lentamente aumentando. Il problema è la solita diffusione a macchia di leopardo. Purtroppo esistono ancora zone in cui queste strutture non riescono a coprire le reali necessità» conclude Silvestrini.
Fonte La Stampa