BOLOGNA – Intere equipe di esperti, procedure sempre più semplificate e perfino sensori nei monitor: tutto con l’obiettivo di “rafforzare la coazione al gioco ed impedire che il giocatore si alzi dallo sgabello“. E’ il terreno su cui si sta sviluppando una ricerca incentrata sull’area metropolitana di Bologna e condotta dall’Istituto petroniani di studi sociali dell’Emilia-Romagna (Ipsser).
Se dal punto di vista quantitativo è accertato “un incremento dei giocatori patologici, dei luoghi in cui si può giocare e dei giochi stessi”, la ricerca si focalizza invece sugli aspetti “qualitativi” del fenomeno, come spiega la vicedirettrice scientifica dell’Ipsser, Carla Landuzzi, che nelle scorse settimane ha partecipato ad un’udienza conoscitiva del Consiglio comunale di Bologna. Innanzitutto, l’industria del gioco fa sì che tutto sia sempre più facile e rapido, segnala Landuzzi: per giocare “basta toccare uno schermo”, i tempi morti sono ridotti al minimo, dai gettoni si è passati alle monete e poi da queste alla carte di credito. Cambiamenti frutto di precisi studi, sottolinea la ricercatrice, perché dietro c’è il lavoro di “equipe super-specializzate” che affinano in continuazione i meccanismi.
“E’ una tradizione che viene dai paesi anglosassoni- afferma Landuzzi- e che sta arrivando anche da noi”, territorio bolognese compreso, quella di coinvolgere “intelligenze che con sadismo vengono utilizzate” per “uncinare” i giocatori, cioè per attrarli verso il gioco e poi trattenerli il più possibile. In campo, così, ci sono anche gli esperti di architettura, perché “lo spazio in cui si gioca ha un’estrema importanza”, spiega la ricercatrice: la mancanza di aperture verso l’esterno, ad esempio, fa sì che “il giocatore non si renda conto del passaggio del tempo”.con