Cosa vuol dire essere infermiere? E’ una domanda a volte complessa a cui rispondere.
L’infermiere spesso risalta nei titoli di giornali per episodi in cui è al centro delle indagini, salvo poi dimenticarsi di pubblicare un articolo in caso di archiviazione dell’indagine se si accerta che “il fatto non sussiste”. In un panorama come il nostro in cui spesso si assiste ad episodi di malasanità mi rendo conto che non abbiamo un piatto della bilancia dove vengano soppesati i lati positivi della sanità e degli operatori che vi operano.
Ci sono giorni nei quali è difficile fare questo lavoro. La frase più frequente che mi sento dire è “come fai?” e io semplicemente rispondo “mi piace” ed è vero, mi piace ma spesso basterebbe un grazie, cosa che sembra quasi una rarità. Ci sono giorni in cui capita di leggere degli articoli, come quello apparso sul New York Times in questi giorni, e con rammarico penso che in Italia difficilmente leggiamo articoli simili sui nostri quotidiani.
Il Signor Peter DeMarco scrive il 6 ottobre scorso al New York Times una lettera commovente, dopo la morte della moglie di soli 34 anni che, colpita da un attacco d’asma devastante morirà alcuni giorni più tardi nell’unità di Terapia Intensiva del CHA Cambridge Hospital. La missiva è indirizzata allo staff che si è preso cura della moglie.
Di seguito uno stralcio della lettera.
Quando comincio a parlare ai miei amici e parenti a proposito dei sette giorni in cui vi siete presi cura di mia moglie, Laura Levis, di quelli che si rivelarono essere i suoi ultimi giorni della sua giovane vita, loro mi interrompono al 15° nome che gli dico. La lista include i dottori, gli infermieri, gli specialisti, il personale di supporto e addirittura il personale delle pulizie che si sono presi cura di lei. “Come ti ricordi tutti i loro nomi? mi chiedono. “Come potrei non farlo?” Ognuno di voi si è preso cura di Laura con talmente tanta professionalità, gentilezza e dignità mentre giaceva inconscia. Quando necessitava di essere mossa vi scusavate perchè avrebbe potuto farle un po’ male sia che vi potesse o meno sentire. Quando auscultavate il suo cuore e i suoi polmoni attraverso i vostri stetoscopi e il suo camice scivolava giù, voi lo tiravate su rispettosamente per coprirla. Voi le mettevate una coperta, non solo quando c’era necessità di regolare la sua temperatura corporea, ma anche quando nella stanza c’era un po’ più di freddo e pensavate che avrebbe dormito più confortevolmente in quel modo.
Vi siete presi notevolmente cura anche dei suoi genitori, aiutandoli a superare l’impatto per entrare in quella camera, offrendo loro acqua fresca per ore, rispondendo alle loro domande per ogni quesito medico con incredibile pazienza. Mio suocero, dottore a sua volta come sapete, si è sentito coinvolto nelle sue cure. Non so dirvi quanto sia stato importante per lui.
Quindi anche come mi avete trattato. Come avrei potuto trovare la forza per andare avanti senza voi? Quante volte siete entrati nella camera trovandomi in lacrime, con la testa appoggiata sulle sue mani, avete fatto il vostro lavoro cercando di essere invisibili? Quante volte mi avete aiutato a mettere la poltrona il più vicino possibile al suo letto, cercando di sistemare i numerosi fili e tubi intorno al suo letto per guadagnare un po’ di spazio?Quante volte vi siete interessati a me, chiedendomi se avessi bisogno di qualcosa, dal cibo al bere, vestiti puliti, una doccia calda o addirittura se necessitassi di una migliore spiegazione delle manovre o semplicemente qualcuno con cui parlare?
Quante volte mi avete abbracciato per consolarmi quando cadevo a pezzi, o chiedendomi della vita di Laura e della persona che era, prendendovi del tempo per vedere le sue foto o leggendo le cose che scrivevo di lei? quante volte mi avete dato cattive notizie con parole compassionevoli e la tristezza nei vostri occhi?
Quando avevo bisogno di usare il computer per una mail urgente voi facevate in modo di renderlo possibile. Quando ho fatto entrare di nascosto un visitatore molto speciale, il nostro gatto grigio Cola, per un ultimo bacio sul viso di Laura voi “non avete visto niente”. E una sera speciale mi avete dato il pieno consenso di poter portare nella camera di Laura in terapia intensiva più di 50 persone, dagli amici ai colleghi, dagli alunni del college ai parenti. Fu una dimostrazione d’amore che incluse canzoni alla chitarra, canti d’opera, balli e nuove rivelazioni per me di come intensamente mia moglie interessasse alle persone. Fu l’ultima grande notte del nostro matrimonio e non sarebbe avvenuta senza il vostro supporto.
Ci fu un altro momento – veramente una sola ora – che non dimenticherò.
Il giorno finale, mentre aspettavamo l’intervento per l’espianto degli organi di Laura, quello che volevo era rimanere solo con lei. Ma la famiglia e gli amici venivano per darle i loro saluti mentre il tempo volava via. Alle 16 finalmente tutti se ne andarono, io ero emotivamente e fisicamente esausto, avevo bisogno di dormire. Cosi chiesi alle infermiere, Donna e Jen, se potevano darmi una mano a sistemare la poltrona che era scomoda ma era quello che avevo, per poter stare ancora vicino a Laura. Loro ebbero un’idea migliore. Mi chiesero di lasciare la stanza per un momento e quando tornai avevano sistemato Laura nel lato destro del letto, lasciandomi abbastanza spazio al suo fianco nel letto per abbracciarla un’ultima volta. Chiesi loro se potevano darci un’altra ora senza interruzioni, loro annuirono, chiusero le tende e le porte e spensero le luci. Avvicinai il mio corpo al suo. Sembrava cosi bella e glielo dissi, accarezzandole i capelli e la faccia. Sistemandole i vestiti, le baciai il petto e vi appoggiai la testa con la sensazione che si muovesse come se respirasse e come se sentissi il suo cuore battere nelle mie orecchie. Fu il nostro ultimo momento di tenerezza come marito e moglie, e fu anche più naturale, puro e confortante di qualsiasi cosa abbia sentito. Quindi mi addormentai.
Mi ricorderò quell’ultima ora insieme per il resto della mia vita. Fu un regalo e devo ringraziare Donna e Jen per questo.
Davvero vi devo ringraziare. Con la mia eterna gratitudine e affetto.
Peter DeMarco”
Credo che non sia mai facile dover dire addio a qualcuno che amiamo e leggendo lettera di quest’uomo ammetto di avere pianto. Mi hanno profondamente toccata le sue parole di gratitudine nei confronti di tutti. Mi piacerebbe che anche nella realtà del nostro Paese si potesse fare in modo che le persone possano poter stare al fianco dei loro cari. Mi piacerebbe ma sono consapevole che spesso non è possibile per questioni di spazi, di carenze, etc.
Mi piacerebbe che chi leggesse questo articolo capisse quanto amore ci mettiamo in questo lavoro. Vorrei chiedere scusa se qualche collega è stato sgarbato o vi ha risposto in maniera sbrigativa. Non siamo infallibili, credo non lo sia nessuno. Fare l’infermiere non è una vocazione come molti pensano, la vocazione l’hanno i religiosi credo, il nostro è un lavoro che richiede cuore, anima e cervello.
E’ un lavoro in cui si vede la morte colpire a qualsiasi età e ci devi convivere anche se ti senti a pezzi, se hai dei problemi personali devi comunque lasciarli da parte e mettere in primo piano il paziente e i suoi familiari. E’ un bel lavoro, credetemi. Ci sono tanti pazienti che addirittura ci abbracciano.
Quello che ci fa felici è un semplice grazie, perchè purtroppo non lo dice più nessuno.
Articolo di Laura Berti, Infermiera.
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