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Le carezze al buio

Le carezze al buio

Le carezze al buio
| venerdì 19 Luglio 2019

Spesso quando parlo con le persone del mio lavoro la prima reazione che trovo è “oddio ma lavori in terapia intensiva? COME FAI?”, spesso mi viene da sorridere, perchè dopotutto per me è il mio lavoro, è la “normalità”, è come chiedere al mio meccanico come fa a fare il suo lavoro solo perchè io non saprei farlo.

La parola stessa Terapia Intensiva spaventa più per il suono delle due parole insieme che per l’effettiva “pericolosità” del luogo in se.

Però ci sono giorni, questo è uno di quelli, dove smontando da notte vado a letto col cuore un pò più pesante del solito, con qualche lacrima in più che nascondo facendo finta che sia solo stanchezza dopo la notte.

Poi ci sono giorni dove mi fanno proprio arrabbiare, sono quei giorni dove leggo articoli di giornale sulle pause caffè degli infermieri, su come “ti uccide” l’infermiere, su come si comportano male gli infermieri (quando poi si scopre che erano altre figure che nulla hanno a che fare con la nostra professione ma ci si guarda bene da fare un titolone correttivo di altrettanta portata).

Sulla pausa caffè ho potuto gioire della risposta sublime di una collega strumentista della sala operatoria che ha saputo spiegare cosa vuol dire prendere un caffè.

Ora vorrei raccontare di cosa sono per me o per i miei colleghi i due caffè che riusciamo a concederci in certi turni.

Ieri sera il primo caffè l’ho bevuto alle 20.40 (giusto per non creare disguidi il mio turno inizia alle 21), uno dei miei pazienti era una signora ultra ottantenne in condizioni molto critiche.

La “mia” paziente ha compiuto gli anni 10 giorni fa e le ho fatto una carezza perchè era l’unico modo che avevo di esprimere la tristezza di vederla lì in quel letto anziché a casa coi suoi familiari.

Stanotte gliene ho fatte tante di carezze, per ogni emogasanalisi eseguita, per ogni volta che l’ho aspirata in bocca per non lasciarla con la saliva che le colasse, per ogni volta che le andavo intorno sapendo di poterle dare fastidio.

L’ho riempita di carezze perchè i suoi familiari non se la sono sentita di entrare a vederla, perchè spaventa vedere qualcuno che amiamo nella sofferenza, non tutti sanno gestire emotivamente questo impatto ed è più che lecito, ma proprio per questo penso che nessuno dovrebbe star male senza sentire più una carezza o un pò di dolcezza.

Dicevo che la Terapia Intensiva spesso fa paura solo a nominarla, vorrei che qualche fanatico della conta delle nostre pause caffè venisse a vedere quante volte i parenti non se la sentono di entrare a vedere il loro familiare morente; vorrei che contassero tutte quelle carezze e le mettessero sulla bilancia con i caffè che ci prendiamo per arrivare a fine turno ancora sulle nostre gambe, con le caviglie gonfie come zampogne scozzesi, con gli occhi crepati di sonno, ma con le mani ancora con la dolcezza di gesti delicati.

Vorrei che ci vedeste ogni volta che consoliamo qualche nonnino perchè i parenti non vengono a vederlo, vuoi per impossibilità lavorative, vuoi per impegni di altra natura o vuoi perché è estate e si va al mare (chiedetelo ai colleghi delle case di riposo come si diradano spesso e volentieri le visite in estate).

Vorrei che ci vedeste quando entrano i parenti e piangiamo con loro, offriamo loro un semplice bicchiere d’acqua o un fazzoletto mentre noi cerchiamo di non commuoverci (veramente a fatica).

Vorrei che ci vedeste quando trattiamo delle emergenze cliniche, gomito a gomito con i medici, capendoci con un battito di ciglia senza nemmeno fiatare.

Vorrei che ci vedeste quando ci restiamo male perchè nonostante tutto ci abbiamo messo l’anima ma ne siamo usciti sconfitti.

Vorrei che ci vedeste quando avendoci messo l’anima ne usciamo contenti perchè il paziente è vivo e uscirà dopo qualche mese dal nostro reparto con noi che facciamo il tifo per lui, vorrei che ci vedeste quando quel paziente a distanza di mesi torna sulle sue gambe a trovarci e tutti lo abbracciamo come se fosse uno di famiglia, perchè effettivamente per un pò per noi è stato come un figlio di cui ci prendevamo cura anche se aveva il doppio dei nostri anni.

Vorrei veramente che non ci vedeste solo come ci descrivono sui giornali per vendere qualche copia in più, vorrei che non fossimo solo quelli descritti come “angeli della morte” perchè la maggior parte di noi la morte la rispetta, fa parte del ciclo della vita, rispettiamo la sofferenza, rispettiamo la persona che è nel letto e che l’unica mano che sentirà in questa notte interminabile sarà la nostra.

Non ho problemi a dire che stanotte ho bevuto ben due caffè, il secondo alle 7.10 per poter essere in grado di guidare fino a casa mentre nel cuore mi portavo qualche chicco di tristezza in più, in tazza piccola.

di Laura Berti

©Riproduzione Riservata

Foto in copertina Adobe Stock licenza standard/opibologna

 

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