L’unica regione sguarnita è rimasta il Molise. Nel resto del Paese, invece, non c’è area che non possa contare almeno su un ospedale che dispone di un robot operatorio. Con l’installazione del centesimo robot Da Vinci, avvenuta nelle scorse settimane al policlinico di Catania, l’Italia si conferma leader europea nell’utilizzo della chirurgia robotica. A pari merito, c’è soltanto la Francia: alle spalle Germania e Gran Bretagna. Mentre nel mondo, a precederci, ci sono soltanto gli Stati Uniti e il Giappone.
La chirurgia robotica è un’opportunità reale per i pazienti: soprattutto per coloro che s’accingono a sottoporsi a un intervento di chirurgia urologica, la branca in cui si effettuano quasi sette interventi su dieci sui diciottomila conteggiati lo scorso anno lungo la Penisola. Ma il robot Da Vinci è utilizzato anche per interventi in ambito ginecologico, cardiochirurgico, toracico e oggi finanche nella chirurgia dei trapianti. Una rivoluzione progressiva, che se da un lato arreca benefici ai pazienti nasconde anche un’insidia: quella di avere in futuro chirurghi in grado di operare soltanto attraverso i bracci dei robot e non di intervenire con le proprie mani nel corpo di un paziente, nei casi più complessi.
La prostata viene asportata quasi sempre col robot
È l’urologia l’ambito in cui il robot Da Vinci la fa da padrone. I motivi di tale successo sono diversi. La precisione del robot consente maggiore facilità di accesso alle anatomie più complesse, una precisione demolitiva e ricostruttiva senza eguali, una minore perdita di sangue, una riduzione della degenza post-operatoria e una diminuzione degli effetti collaterali: disfunzione erettile ed incontinenza, frequenti soprattutto a seguito dell’asportazione di una prostata colpita da tumore (intervento che nella quasi totalità dei casi oggi avviene in chirurgia robotica).
L’introduzione nel sito operatorio di una telecamera consente una visione tridimensionale in grado di moltiplicare fino a dieci volte la normale visione dell’occhio umano, mentre i gesti chirurgici si fanno più ampi.
Spiega Walter Artibani, direttore dell’unità operativa di urologia dell’azienda ospedaliero-universitaria di Verona e segretario generale della Società Italiana di Urologia: «Il robot conferisce al gesto chirurgico una precisione non confrontabile con altre tecniche e permette di superare i limiti legati alla difficoltà di trattare, con la laparoscopia, malattie in sedi anatomiche difficili da raggiungere. Inoltre la possibilità di avere una doppia postazione consente di poter effettuare, oltre a interventi precisi e mininvasivi, una eccellente formazione professionale». Ma è anche la chirurgia del rene a trarre beneficio dalla chirurgia robotica. In passato, per esempio, l’organo colpito da un tumore si asportava per intero. Oggi, invece, «se le dimensioni del tumore sono comprese tra tre e sette centimetri, si effettua una resezione parziale in chirurgia robotica», aggiunge Vincenzo Mirone, direttore della clinica urologica dell’Università Federico II di Napoli.
La sostenibilità economica
Due anni e mezzo fa, quando ci occupammo dell’evoluzione ultima della laparoscopia erano 77 i robot Da Vinci presenti negli ospedali italiani. Oggi sono cento: segno che in questi anni s’è lavorato soprattutto per colmare il divario tra le aree geografiche. Secondo Mirone «a eccezione della Lombardia, dove ve ne sono 22 anche in ragione dell’elevata presenza di strutture private, la distribuzione sul territorio nazionale è più o meno equa, se si considera la densità di popolazione». Detto del vuoto del Molise, spiccano i «soli» tre Robot presenti in Emilia Romagna (Bologna, Forlì, Modena) e l’unico (Crotone) disponibile in Calabria. Un gap continua comunque a esistere, se al Nord se ne contano 51, al Centro 30 e al Sud 19.
«La robotica nelle regioni meridionali oggi funziona abbastanza bene, ma occorre completare questo percorso di sviluppo che può aiutarci a contenere la migrazione sanitaria», prosegue Mirone, che lavora in una regione in cui si contano sei dispositivi. L’acquisto è ancora abbastanza oneroso per le strutture: servono circa tre milioni di euro per dotare un ospedale di un robot Da Vinci. Mentre la rimborsabilità (dalla Regione alla struttura) di un intervento è sì superiore alla stessa garantita per un intervento a cielo aperto, ma non poi di tanto. Nel tempo, però, il sistema è sostenibile, assicurano gli esperti.
«I pazienti urologici operati con la chirurgia robotica si alzano già a poche ore di distanza dall’intervento e vengono dimessi in seconda giornata», prosegue Mirone, ricordando che un giorno di degenza in ospedale arriva a costare fino a 500 euro. Serve raggiungere almeno la soglia di duecento interventi l’anno per rendere il robot una opportunità piena ed evitare il rischio di uno spreco. Mentre un chirurgo si considera esperto nella gestione del robot se effettua almeno cinquanta procedura all’anno.
Come lavoreranno i chirurghi del futuro?
Il presente è dunque più rassicurante, almeno per i pazienti chirurgici. A lungo termine, però, c’è un aspetto da considerare, quando si schiaccia il piede sull’acceleratore della robotica: la formazione dei chirurghi. Come detto, uno dei vantaggi legati alla presenza del robot in sala operatoria è dato proprio dalla possibilità di far fare formazione sul campo agli specializzandi e ai giovani chirurghi.
Ma se Gianluigi Melotti, direttore della chirurgia generale dell’ospedale di Baggiovara e tra i massimi esperti di chirurgia mininvasiva a livello internazionale, è convinto che «arriveremo a effettuare anche la maggior parte degli interventi di chirurgia generale con il robot», rimane il dubbio che i chirurghi del futuro possano non essere all’altezza di «convertire» un paziente direttamente in sala operatoria: ovvero di sottoporlo a un intervento tradizionale in corso d’opera, per esempio a seguito di una sopraggiunta complicanza.
«Questo rischio c’è, iniziamo a discuterne», è l’appello di Artibani, convinto che la fase di transizione sia destinata a proseguire verso un approdo ancora più tecnologico: coi robot in grado di essere programmati ed effettuare l’intervento senza la guida da parte del chirurgo. «L’abilità del chirurgo va tutelata, dobbiamo essere sempre pronti a intervenire di fronte a un eventuale fallimento della tecnologia».
Fonte La Stampa