Colpisce un italiano su tre ed è il principale fattore di rischio per le patologie cardiovascolari. L’ipertensione arteriosa, che interessa circa 1,5 miliardi di persone nel mondo e un italiano su tre, è un «killer silenzioso»: le malattie ad essa correlate provocano oltre 10 milioni di decessi l’anno.
Oggi esistono trattamenti efficaci, ma i dati mostrano che circa il 50% dei pazienti sospende la cura a un anno dalla prescrizione, rinunciando così a un controllo appropriato e continuo della pressione. Sono questi alcuni dei dati che sono emersi nel 27° Congresso della Società Europea dell’Ipertensione (ESH) che si è svolto di recente a Milano e che ha visto la partecipazione di oltre 3.000 specialisti provenienti da 34 Paesi.
LA PRIMA CAUSA DI MORTALITÀ
In Italia, l’ipertensione è un problema che riguarda in media il 33% degli uomini e il 31% delle donne e questo numero è destinato a crescere a causa dell’invecchiamento della popolazione. «L’ipertensione arteriosa è la causa prima di mortalità in tutto il mondo» ha spiegato in conferenza stampa il prof. Enrico Agabiti Rosei Presidente della ESH e Direttore della Clinica Medica dell’Università di Brescia e del Dipartimento di Medicina della Azienda Spedali Civili di Brescia.
«È il fattore di rischio più importante e come causa di eventi fatali e non fatali ha superato altri fattori di rischio, come il fumo di tabacco e l’inquinamento atmosferico. Ma non di rado viene sottovalutata dai pazienti e, talvolta, anche dai medici. L’inizio del trattamento viene effettuato di solito quando ancora non sono presenti sintomi, e questo è uno dei possibili motivi della scarsa aderenza alla terapia». La sospensione della cura non presenta conseguenze immediatamente visibili e, in più, sono molti a ritenere che una volta normalizzati i valori si possa interrompere l’assunzione del farmaci. Al contrario, non trattarla significa causare all’organismo seri danni cardiaci e vascolari.
I COSTI DELLA SCARSA ADERENZA
Dai dati amministrativi della Regione Lombardia risulta che circa il 40% dei pazienti ipertesi dopo la diagnosi non ripete la prima somministrazione del farmaco. I costi sono medici, sociali ed economici. «È stato calcolato che solo in Lombardia 2 milioni e mezzo di euro l’anno potrebbero essere risparmiati» aggiunge il professor Giuseppe Mancia Presidente dell’ESH Meeting di Milano. «Inoltre, la mancata aderenza comporta un incremento dell’incidenza delle patologie cardiovascolari e quindi anche maggiori ospedalizzazioni e conseguenti costi».
IPERTESO UN OVER 65 SU DUE
Quello della scarsa aderenza non è solo un problema italiano e nei paesi si discutono possibili strategie. «La semplificazione della terapia con l’impiego di associazioni di farmaci in un’unica pillola è un’ottima soluzione» aggiunge Agabiti Rosei. «L’ipertensione è un problema più frequente nella terza età e in Italia un paziente su due dopo i 65 anni è iperteso. Si tratta di malati spesso con altre patologie e che quindi sono costretti ad assumere più compresse contemporaneamente. Un ulteriore aiuto può arrivare dall’uso delle nuove tecnologie, dai dispositivi elettronici e dalla telemedicina, che possono aiutare a incentivare i pazienti ad assumere regolarmente la cura».
QUANTO SALE?
Si consiglia spesso di diminuire il consumo di sale per abbassare il rischio di insorgenza di ipertensione. Ma qual è la dose ideale di sodio da assumere e come cambia con l’età e lo stato di salute dell’organismo? Secondo uno studio condotto da Word Heart Federation, Società Europea dell’Ipertensione (ESH) e European Public Health Association, un eccesso di riduzione, al di sotto dei 7,5 grammi di sale al giorno (corrispondenti a 3 grammi di sodio) potrebbe essere dannoso per la salute.
«Non abbiamo ancora dati scientifici certi sugli effetti che un consumo moderato di sale offrirebbe alla riduzione del rischio cardiovascolare e di decesso. Il nostro studio» spiega Giuseppe Mancia Presidente dell’ESH Meeting di Milano e primo autore dello studio «suggerisce di limitare l’apporto di sale senza però andare al di sotto dei 7,5 grammi al giorno perché non conosciamo ancora le conseguenze per la salute».
Fonte La Stampa