CAGLIARI – “Abbiamo deciso di fare un investimento e siamo orgogliosi, a testimonianza che a guidarci non è un atteggiamento liberistico e ragionalistico”. Così l’assessore alla Sanità Luigi Arru, che stamattina ha presentato alla stampa nella sede assessorato di via Roma, i risultati della terapia diretta contro l’epatite C ottenuti in Sardegna nel biennio 2015-2016.
Affianco ad Arru nella conferenza stampa, i medici responsabili dei centri di malattie infettive in Sardegna, e alcuni pazienti che hanno voluto testimoniare la loro esperienza personale nella battaglia contro la malattia infettiva.
IL PROGETTO SARDO
Nel dettaglio, la Regione ha messo a disposizione in due anni 120 milioni di euro per 1.977 cittadini affetti dal virus, con risalutati molto positivi. Oltre il 96% dei pazienti sottoposti alla terapia sono guariti definitivamente e questo consentirà di guardare al futuro con ottimismo.
Nel primo trimestre del 2017 hanno iniziato la terapia 233 pazienti, e altri 220 a breve si sottoporranno alla cura.
Una terapia ancora molto costosa, circa 10.000 euro per un ciclo di terapia, ma calata molto negli anni (appena immessa nel mercato arrivava a circa 80.000 euro).
Per quest’anno cambieranno anche i criteri di reclutamento, e potranno accedere alla cura pazienti con epatite C non grave: “Per ora abbiamo curato soltanto i pazienti più gravi- sottolinea Franco Bandiera, direttore dell’unità di medicina interna dell’ospedale civile di Sassari-. L’estensione dei nuovi criteri e la possibilità di trattare sostanzialmente tutti i pazienti, mette le basi per eradicare completamente la malattia. Potrebbe essere la prima malattia che sparisce, non per vaccinazione, ma per un trattamento”.
Solide basi dunque per affrontare con ottimismo la battaglia contro la malattia infettiva, i cui numeri continuano però a preoccupare: in Sardegna sono circa 30.000 le persone affette da epatite C, su 2.500 attualmente curate.
“C’è un sommerso che va tirato fuori, questa è l’azione che deve essere portata avanti- sottolinea Efisio Chessa, dell’ospedale di Oristano-. Serve uno screening per poter individuare la maggior parte dei pazienti”.
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