Introduzione
L’attuazione di misure di contenzione affonda le sue origini lontano nel tempo, nell’ambito dei trattamenti dei disturbi mentali. In Francia, l’atto di Philippe Pinel – precursore della psichiatria moderna – del 1794 dette avvio a un nuovo modello di cure, liberando da barbari sistemi di restrizione i folli fino ad allora reclusi e prevedendone il trasferimento nei neonati spazi manicomiali dove, peraltro, fecero subito il loro ingresso diversi mezzi di contenzione: sedie, cinture di cuoio, manette, collari, camicie di forza. (1) Qualche decennio dopo, oltre Manica, lo psichiatra John Conolly sostenne la necessità e la possibilità di una not restraint psychiatry, restando, peraltro, inascoltato.
Nel nostro Paese, il Regio Decreto 615/1909 – abrogato dalla legge 180/1978 -, all’articolo 60 disponeva: “nei manicomi debbono essere aboliti o ridotti ai casi assolutamente eccezionali i mezzi di coercizione degli infermi e non possono essere usati se non con l’autorizzazione scritta del direttore o di un medico dell’istituto. Tale autorizzazione deve indicare la natura del mezzo di contenzione”. L’uso dei mezzi di contenzione era in ogni caso vietato nelle case di cura private. Nonostante le lunghe discussioni sull’abolizione dei mezzi di contenzione, che dagli inizi del ’900 ebbero luogo nella comunità psichiatrica italiana, la misura coercitiva rimase pressoché inalterata fino agli anni 70, quando, in epoca di superamento dell’ospedale psichiatrico, venne denunciata e combattuta come espressione di una pratica violenta, disumana, per nulla terapeutica. L’avvento dei farmaci neurolettici nella terapia delle psicosi ha ridotto il ricorso alle contenzioni meccaniche, anche se il fenomeno si è mantenuto.
Nel 1999, il Comitato Direttivo di Bioetica (CDBI) del Consiglio d’Europa ha prodotto un Libro Bianco sul trattamento dei pazienti psichiatrici (1) nel quale, in tema di contenzione fisica, si sostiene che “il ricorso a mezzi di breve contenzione fisica dovrebbe essere proporzionato allo stato di agitazione del paziente e al rischio; il personale addetto, inoltre, dovrebbe poter avere una formazione particolarmente approfondita in merito”. È stato in questo contesto sottolineato che la risposta al comportamento violento di un paziente dovrebbe essere graduale, cioè il personale dovrebbe, in un primo tempo, tentare di rispondere verbalmente, poi, nei casi più eclatanti e per quanto possibile, attraverso la contenzione manuale; e solo come ultima ratio attraverso dei mezzi di contenzione meccanica.
Dunque, il ricorso all’isolamento, ai mezzi di contenzione meccanica o ad altre forme di coercizione per periodi lunghi, dovrebbe avvenire solo in casi eccezionali e se non esiste alcun altro modo per porre rimedio alla situazione. Inoltre, il ricorso a tutte queste misure dovrà essere fatto dietro ordine espresso di un medico o immediatamente comunicato a chi ha l’autorità di approvarlo. Le ragioni e la durata di tali misure dovrebbero essere oggetto di una menzione in un registro appropriato e nel dossier personale del paziente”. Il nostro Comitato Nazionale di Bioetica (CNB), nel parere2 formulato in relazione al citato documento del CDBI ha affermato: “la contenzione e l’isolamento devono essere drasticamente ridotti e praticati solo in casi eccezionali, in mancanza di alternative o in stato di urgenza, e devono altresì venir limitati nel tempo.
Vi è qui una convergenza tra la norma etica del rispetto della dignità personale e il criterio clinico-terapeutico; recenti studi nosodromici sulla patologia da istituzionalizzazione hanno evidenziato che ricoveri protratti cronologicamente negli O.P. favoriscono la cronicizzazione”. Nella raccomandazione (3) del Consiglio d’Europa Rec (2004) relativa alla protezione dei diritti umani e della dignità delle persone affette da disturbi mentali, si è ribadito che restrizioni fisiche e reclusione dovrebbero essere usate solo se strettamente necessarie e solo in strutture appropriate, sotto supervisione medica e con il continuo monitoraggio del paziente.
Ancora il Consiglio d’Europa è intervenuto, nel 2006, sul tema della contenzione nei pazienti psichiatrici adulti, nell’ambito del 160 General Report (4) Nel 2010, nel nostro Paese, la Conferenza Stato-Regioni ha licenziato un documento sulla contenzione fisica in psichiatria5 in cui si è dichiarata la volontà di “costruire una strategia di prevenzione della contenzione fisica che si ponga all’interno della prevenzione dei comportamenti violenti nei luoghi di cura e si è sostenuto che la contenzione è un atto anti terapeutico che rende più difficile la cura piuttosto che facilitarla”.
In ambito non psichiatrico, l’uso della contenzione di persone anziane è un po’ più recente. Uno sguardo qua e là può illuminare sulla estensione del fenomeno e sulla comunanza delle criticità connesse. Negli USA, una revisione della letteratura di nursing (2), spaziante dal 1885 al 1950, ne ha esposto la diffusa pratica e ha concluso fornendo indicazioni di evitare il più possibile la contenzione fisica negli anziani. Nello stesso Paese, tuttavia, negli anni successivi al 1960 si è avuto un notevole incremento della pratica, con circa il 20% di pazienti di oltre 70 anni sottoposti a contenzione durante la degenza in ospedale per acuti.
Il ricorso così frequente a misure contentive veniva attribuito a una serie concomitante di fattori:
• aumento dell’età della popolazione assistita;
• perdita del valore sociale degli anziani;
• crescita del numero di anziani con deficit cognitivi;
• adozione di diversi modelli di cura;
• diffondersi tra gli operatori di timori di essere coinvolti in azioni di responsabilità per la cura degli anziani.
Nel 1987, il Nursing Home Reform Act, nell’affermare il diritto “to be free from… any physical or chemical restraints imposed for purposes of discipline or convenience and not required to treat the resident’s medical symptoms”, ha disposto una riduzione della contenzione fisica e farmacologica in assenza di giustificazioni cliniche e di apposita documentazione. Dal 1991 al 2007, le contenzioni giornaliere nelle residenze assistenziali sono passate dal 21% al 5%.
In Australia, una revisione sistematica del Joanna Briggs Institute, del 2002 (3,4) ha esposto i seguenti dati:
• in reparti ospedalieri per acuti, il 10% dei pazienti era soggetto a forme di contenzione per 2,7- 4,5 giorni;
• in residenze assistenziali, i pazienti contenuti variavano dal 12% al 47%, con una media del 27% e una durata della contenzione variabile: il 32% era trattenuto per almeno 20 gironi al mese.
In Francia, nel documento dell’ANAES (oggi Haute Autorité de Santé – HAS) del 2000: Limiter les risques de la contention physique de la personne âgée,6 si sono forniti i seguenti dati:
• prevalenza di contenzioni fisicomeccaniche pari al 7,4 – 17% negli ospedali per acuti;
• pazienti anziani 3 volte più soggetti alla pratica, con cifre oscillanti, negli over 65, tra il 18 e il 22%;
• prevalenza nelle strutture di lunga degenza per anziani variante dal 19 all’84,6 %.
In Germania, un ampio studio sulla contenzione è stato condotto, qualche anno addietro, nelle residenze assistenziali (5). Delle 308 residenze contattate, 123 hanno aderito a uno studio caso-controllo protrattosi per 3 mesi e caratterizzato da:
• presenza di un agente di cambiamento per ogni residenza partecipante;
• attività educative;
• dotazione di ausili tecnici (hip protector, calze antiscivolo, pedane con sensori);
• valutazione di alternative esperibili in ciascun caso (discusse con i familiari o il legale rappresentante del paziente); • supporto del team di progetto allo staff assistenziale.
Per meglio cogliere il rischio di effetti collaterali derivanti dalla contenzione nonché il vissuto di un assistito che vi fosse sottoposto, un agente di cambiamento è stato a sua volta volontariamente contenuto. Lo studio ha mostrato che, nonostante il gran numero di evidenze di inefficacia e di alta incidenza di eventi avversi, la contenzione era ampiamente utilizzata, per una quota oscillante dal 4% al 59%, soprattutto mediante cinture fissanti al letto o alla sedia, sponde al letto, sedie con tavolino fisso.
La giustificazione più comunemente addotta era relativa alla sicurezza del paziente, di cui si intendeva prevenire le cadute, controllare i comportamenti rischiosi, evitare allontanamenti non autorizzati. I risultati del progetto sono stati:
• netta riduzione delle contenzioni nel gruppo partecipante allo studio;
• presenza di cadute un po’ più alta in questo gruppo;
• ugual numero di fratture nel gruppo di progetto e in quello di controllo.
Si è concluso che una riduzione delle contenzioni nelle residenze assistenziali è possibile e che un approccio interdisciplinare – medico – assistenziale – inclusivo di valutazioni etiche e legali può dare i maggiori benefici.
In Norvegia, la contenzione fisica, seppur vietata, dal 2009 è eccezionalmente consentita se il paziente è incapace di dare il proprio consenso o vi è impossibilità di attuare un trattamento sanitario e l’impedimento arrechi danno alla salute dell’assistito, dopo aver esperito tentativi di persuaderlo altrimenti. Uno studio sulle misure tese a prevenire ed evitare la contenzione ha indicato come significative le seguenti: persuasione, allettamento, distrazione, conversazione, al fine di spostare l’attenzione del paziente da quel che contribuisce alla sua agitazione. Si è poi evidenziata l’importanza di garantire una congrua consistenza numerica e qualitativa dello staff di assistenza (6).
Nel Regno Unito, il Royal College of Nursing (RCN), nel 2010 si è occupato anche della contenzione di pazienti di minore età, elaborando l’atto di indirizzo Restrictive physical intervention and therapeutic holding for children and young people.7 In esso si è osservato come l’espressione restrictive physical intervention vada sostituendo il termine restraint, tradizionalmente usato per designare la contenzione. Si è raccomandato di provvedere all’addestramento del personale affinché acquisisca le abilità necessarie per eseguire correttamente le misure contentive e di rendere disponibile un adeguato numero di operatori. Nel 2006, il nostro CNB, nel documento “Bioetica e diritti degli anziani” (8) soffermandosi sulle questioni etiche inerenti il rispetto dell’integrità corporea e morale dell’anziano, ha focalizzato l’attenzione su maltrattamenti, abusi e abbandoni, sino alla vera e propria violenza, e ha osservato che la maleficienza verso l’anziano può “corrispondere alla contenzione, intesa come limitazione meccanica o farmacologica delle possibilità di movimento autonomo di un individuo… Tale contenzione è assolutamente riprovevole allorché venga applicata senza un più che giustificato motivo e soltanto ai fini della tutela dell’incolumità della persona. Identico giudizio negativo vale per un ingiustificato isolamento”.
Definizione e tipi di contenzione
Diverse possono essere le modalità di attuazione di una misura contentiva (7). Si può sinteticamente distinguere i seguenti tipi di contenzione:
• fisica: caratterizzata dall’intervento di uno o più operatori, con contatto fisico diretto con il paziente;
• ambientale: isolamento, limitazione di spazio di movimento;
• chimica, mediante uso di farmaci;
• psicologica (tecniche di de-escalation): può comprendere il parlare di continuo con l’assistito per impedirgli di fare qualcosa, oppure sottrargli la disponibilità di alcuni oggetti (occhiali, deambulatori, abiti per uscire…);
• tecnologica, ovvero il ricorso a forme di sorveglianza (per lo più inserite in strategie di controllo dei missing e wandering patients) che si avvalgono di dispositivi tecnologici: videocamere, allarmi alle porte, apertura delle porte con codice o con maniglie di difficile gestione per persone con problemi cognitivi, tag che innescano allarme all’avvicinarsi a una porta… Seppure non possa dirsi contenzione in senso stretto, si tratta di mezzi che, nell’esercitare un controllo sulla sfera di libertà del paziente, possono poi costituire l’innesco di una contenzione vera e proprio, quando si attivi un allarme.
• Meccanica, mediante sponde al letto, sedia con corpetto o tavolino avvolgente, mezzi bloccanti segmenti corporei (polsiere, cavigliere) o determinanti una postura obbligata (cuscini anatomici, divaricatori).
Nel citato documento dell’ANAES: Limiter les risques de la contention physique de la persone âgée (9) riferito a persone di età maggiore di 65 anni, ancora in grado di muoversi, ospiti di un ospedale o di una residenza, con esclusione dei pazienti con problemi psichici non legati all’età, si opera un’ulteriore distinzione nell’ambito di quella che viene definita contenzione fisica delle persone anziane tra:
• contenzione posturale, tesa a far mantenere una postura corretta nell’ambito di un trattamento riabilitativo;
• contenzione attiva, realizzata da un fisioterapista per preparare la verticalizzazione di un paziente dopo una fase protratta di allettamento;
• contenzione passiva, caratterizzata dall’impiego di vari mezzi, metodi o divieti che impediscono o limitano la capacità di movimento volontario del corpo o di una sua parte, a fini di sicurezza. Date le diversità tipologiche, è indispensabile una delimitazione del concetto di contenzione.
In letteratura si rinvengono varie definizioni, non del tutto coincidenti. Eccone alcune:
• nel citato Nursing Home Reform Act USA del 1987, la contenzione è definita come metodica, manuale o fisica, strumento meccanico, materiale o altra attrezzatura applicata al corpo del paziente o nelle sue vicinanze, che non può essere rimossa facilmente dall’individuo e che ne limita la libertà dei movimenti o la normale accessibilità al proprio corpo;
• restrizione intenzionale dei movimenti volontari di una persona o del suo comportamento (inteso come azioni pianificate o intenzionali piuttosto che inconsapevoli, accidentali o riflesse), secondo il documento inglese Showing restraint: challenging the use of restraint in care homes del 2002 (8);
• limitazione del movimento o limitazione della libertà, ancorché molte pratiche assistenziali possano comportare limitazione dei movimenti – es.: doccia gessata in fratturato…, secondo il Royal College of Nursing inglese;
• ogni mezzo connesso o vicino al corpo di una persona, che non può essere controllato o facilmente rimosso dalla persona stessa ed è destinato a prevenirne i liberi movimenti in una posizione di sua scelta e/o il normale accesso al suo corpo, secondo il Joanna Briggs Institute.
Se il fattor comune è individuabile in una limitazione della sfera di libertà di una persona, si evidenzia peraltro un prevalente riferimento ad alcuni tipi di contenzione: meccanica e fisica, in particolare. Se pure concentriamo l’attenzione sulle misure meccaniche, le incertezze sul dove porre il confine tra quel che costituisce trattamento contentivo e quel che non lo è non sono del tutto fugate. Possono essere ritenuti provvedimenti di contenzione quelli impiegati con il consenso del paziente? Nel manuale di deontologia medica di Tavani et al. (9) si afferma che la contenzione trova la sua giustificazione “quale azione diretta a tutelare la salute dell’assistito, vuoi esperita con il suo consenso partecipato ovvero di chi legalmente lo rappresenta, vuoi condotta in evidente ed effettivo stato di necessità, per periodi di tempo limitati, nel rispetto, comunque, della dignità e dei diritti dell’assistito medesimo.
Secondo questo autore, l’elemento “consenso” non sarebbe dirimente, di per sé, per stabilire se si tratti o meno di misura contentiva, ma sul punto non vi è affatto univocità di visioni. Davanti a un paziente che non acconsente a trattamenti ritenuti utili o non li tollera, prima di decidere per una misura contentiva, Ann Gallagher (10) propone un approccio basato su 4 pilastri:
1. Le indicazioni del trattamento: qual è la diagnosi, quali le opzioni di trattamento con le rispettive prognosi?
2. Le preferenze del paziente, se in grado di intendere e volere. Se non lo è, qual è il suo miglior interesse?
3. La qualità di vita: il trattamento sanitario proposto potrà migliorare la qualità di vita del paziente oppure il peso e i rischi a esso correlati superano i potenziali benefici?
4. Il contesto: quali elementi culturali, religiosi, legali, di contorno influenzano la decisione?
Dalle risposte date a tali interrogativi si trarranno elementi utili per decidere se l’intervento sanitario debba essere perseguito e, se sì, con l’ausilio di quale misura contentiva. La contenzione può essere allora qualificata come trattamento sanitario? Senza disperderci in dissertazioni sul concetto di trattamento sanitario, possiamo assumere che la contenzione:
• non si configuri quale trattamento curativo, al più di prevenzione di situazioni pericolose per l’assistito e/o per terzi;
• sia, in ogni caso, intervento che unanimemente si ritiene debba essere disposto da un professionista sanitario – medico, in primis.
In assenza del consenso del paziente – se in grado di esprimerlo validamente – la contenzione può essere ascritta al genere del trattamento sanitario obbligatorio, come disciplinato dagli articoli 33 e 34 della legge 833/78? Gli interventi sanitari obbligatori possono essere attivati solo in via di eccezione rispetto al generale principio della libertà dei trattamenti sancita dall’art. 32, comma 2 della Carta Costituzionale, quando il dovere di attivarsi a beneficio di un paziente sia stimato prevalente sul rispetto della sua libertà, entro i limiti definiti dall’ordinamento. Nel richiamato art. 33 della legge 833/78 si prevede tuttavia che, anche nel caso di un trattamento sanitario obbligatorio, si adottino iniziative volte ad assicurare il consenso e la partecipazione del paziente. In talune realtà psichiatriche, il ricorso alla contenzione meccanica avviene in conformità alle procedure che disciplinano il TSO; ma nella più parte dei casi non si registra una tale assimilazione.
L’Associazione Svizzera di Scienze Mediche, nelle Direttive medico-etiche su misure di contenzione in medicina del 2005,10 ha distinto le misure di limitazione della libertà da quelle coercitive. Per “misura coercitiva si intende ogni tipo di intervento che va contro la volontà dichiarata del paziente o che provoca la sua opposizione o che è contraria alla sua presunta volontà (nel caso in cui il paziente non sia in grado di comunicare). Sono parimenti considerate misure coercitive misure meno costrittive, quali il fatto di costringere un paziente ad alzarsi, a mangiare o a partecipare a una seduta terapeutica. In generale, queste misure sono soggette alle stesse regole…. Nella pratica si può fare la distinzione tra limitazione della libertà e trattamento coercitivo…
Si parla di limitazione della libertà quando la restrizione riguarda soltanto la libertà di movimento (es.: internamento in un’istituzione chiusa). Importanti limiti alla libertà sono la contenzione (es.: con cinture) o l’isolamento (es.: camera di isolamento)… Quando, oltre alla limitazione della libertà, si interviene anche contro l’integrità fisica di una persona (es.: nel caso in cui un trattamento medico è effettuato con la coercizione o con la forza), allora si parla di misura coercitiva medica con violazione dell’integrità fisica. In questo frangente si utilizza il termine trattamento coercitivo. Affermato che le misure coercitive costituiscono in ogni circostanza una grave infrazione al diritto all’autodeterminazione e alla libertà personale dell’individuo, si aggiunge poi: sebbene in medicina l’impiego della non-coercizione sia un obiettivo prioritario, le misure coercitive non sono sempre eludibili e vanno viste come l’ultima ratio. Se il paziente è considerato un serio pericolo per sé o per il prossimo, tali misure rappresentano a volte il solo mezzo a disposizione per evitare danni più gravi. Le misure coercitive mediche racchiudono sempre un conflitto tra diversi principi medico-etici: se da un lato vige l’idea che «bisogna dare aiuto», rispettivamente che «non bisogna nuocere», dall’altro occorre salvaguardare, nei limiti del possibile, l’autonomia del paziente. Di regola, ogni atto medico presuppone il consenso del paziente (informed consent). Ecco perché le misure coercitive devono essere applicate soltanto in casi eccezionali.
In situazioni di urgenza, quando il paziente rappresenta un pericolo per sé o per il prossimo, la necessità di misure coercitive non è in sostanza contestata. La questione diventa più problematica in situazioni che non hanno carattere urgente, in cui sono però messi in primo piano particolari legati alla sicurezza o alla salute, segnatamente in geriatria e in psichiatria. In questo ambito è spesso difficile determinare in modo chiaro se la restrizione dei diritti dell’individuo e della sua libertà, cioè la violazione momentanea dell’autonomia del paziente «per il suo bene», giustifichi veramente una misura coercitiva”.
Proseguendo nel porci interrogativi, un ulteriore riguarda le pratiche di limitazione dei movimenti indispensabili per l’esecuzione di alcuni trattamenti sanitari (ad es.: fasce sul lettino operatorio, gessi ortopedici…) e quelle che limitano solo parzialmente gli spostamenti (es.: spondine che proteggono metà del letto…). Sono tutte da ricondurre a misure contentive? Secondo qualche autore (11), la risposta è negativa. Nella prima serie di esempi, si tratta di misure integrative di un intervento che non può prescinderne e che soggiace all’assenso del paziente. Negli altri casi, non si ravvisa una vera e propria restrizione della sfera di libertà personale.
Aspetti deontologici, etici, giuridici
La pratica professionale dovrebbe sempre essere sorretta da alcuni principi basilari:
• rispettare i diritti delle persone;
• tener conto delle loro volontà e dei loro valori;
• ottemperare ai doveri del proprio ruolo;
• agire con competenza e consapevolezza, valutando le conseguenze delle proprie azioni;
• ridurre i rischi e perseguire il miglior interesse per l’assistito.
Una disamina dei molteplici aspetti deontologici, etici e giuridici correlati alla contenzione può aiutare a comprendere la differenza tra misure inaccettabili o abusive e quelle giustificate (12).
Innanzitutto, va richiamato l’art. 13 della nostra Costituzione, che statuisce essere la libertà personale inviolabile e che “non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dall’Autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”.
A seguire, l’art. 32 Cost. il cui 2° comma dispone che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Pur in un ambito di restrizione della sfera della libertà personale, quale il carcere, dispone il DPR 230/2000 – regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà-, all’art. 82, che la coercizione fisica debba effettuarsi sotto il controllo sanitario con l’uso dei mezzi impiegati per le medesime finalità presso le istituzioni ospedaliere pubbliche.
A livello deontologico, il codice dei medici del 2006, all’art. 18 – Trattamenti che incidono sulla integrità psico-fisica – prevede che “i trattamenti che incidono sulla integrità e sulla resistenza psico-fisica del malato possono essere attuati, previo accertamento delle necessità terapeutiche, e solo al fine di procurare un concreto beneficio clinico al malato o di alleviarne le sofferenze”.
Lo stesso codice, all’art. 51, 2° comma, precisa che “in caso di trattamento sanitario obbligatorio, il medico non deve richiedere o porre in essere misure coattive, salvo casi di effettiva necessità, nel rispetto della dignità della persona e nei limiti previsti dalla legge.
Il Codice deontologico dell’infermiere del 2009, all’art. 30 afferma che “l’infermiere si adopera affinché il ricorso alla contenzione sia evento straordinario, sostenuto da prescrizione medica o da documentate valutazioni assistenziali”. Poiché tratto comune delle misure contentive è una limitazione della sfera di libertà delle persone, escludendo i casi di consenso di queste ultime, occorre considerare come la contenzione possa conciliarsi con le norme poste a garanzia della libertà personale, della dignità di ogni individuo e della tutela della sua salute.
Al proposito, osserva il giurista Grassi (13) che “la coercizione fisica può essere esercitata nell’ambito di un rapporto di diretto confronto con il paziente, misurandosi con lui per fargli superare una situazione di crisi, ma – occorre precisare – riconoscendone la sua soggettività, i suoi diritti e i suoi bisogni, anche se espressi in modo convulso e violento. Deve trattarsi però soltanto di una forma di contenimento momentaneo, inserita in un trattamento terapeutico, non già un’iniziativa fine a sé stessa, bensì la premessa di interventi propriamente sanitari, immediatamente successivi.
Da un punto di vista giuridico, questa forma di coercizione, che in astratto potrebbe dar luogo a reati, può essere giustificata dall’art. 51 del codice penale, che disciplina lo stato di necessità.
Nel caso in cui il paziente abbia tenuto comportamenti eteroaggressivi, potrà valere anche la scriminante della legittima difesa. In genere, ma non necessariamente, questi interventi coercitivi sul paziente avvengono nell’ambito del trattamento sanitario obbligatorio”.
Le decisioni giurisprudenziali sul tema non sono numerose, “non solo perché le condizioni soggettive delle persone offese sono spesso tali da non consentire loro neppure di proporre denuncia, ma anche perché in vaste aree culturali viene tuttora dato per scontato che sia del tutto lecito contenere con la forza i soggetti disturbati psichicamente, i tossicodipendenti, gli anziani affetti da demenza senile.
Peraltro la giurisprudenza ha fissato definitivamente alcuni punti. In primo luogo che l’infermo va salvaguardato nelle sue libertà essenziali, per quanto queste possano risultare compromesse dalla malattia… Ciò che manca ancora è la diffusa consapevolezza che la contenzione sia comunque illecita, indipendentemente dai suoi effetti lesivi o dalle sue modalità esecutive, quando superi quel limite minimo di contenimento fisico, diretto ed immediato, scriminato sulla base di una rigorosa interpretazione dell’art. 54 c.p.
L’art. 54 c.p. … vale a scriminare quelle forme di contenimento fisico del paziente strettamente necessarie per contrastare una situazione di crisi improvvisa ed acuta, quando vi sia la necessità di salvare sé o altri (e perciò, ovviamente, anche il paziente stesso) da un danno grave alla persona, quando il pericolo non sia altrimenti evitabile e sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo… Questa concezione… appare l’unica compatibile con l’art. 13 della Costituzione… Né il trattamento sanitario obbligatorio (che pure è autorizzato dal giudice e perciò soddisfa l’art. 13 Cost. nella parte in cui prescrive che ogni limitazione della libertà può essere disposta o convalidata unicamente dall’autorità giudiziaria) consente di per sé la contenzione al di fuori dei limiti dello stato di necessità”. (13).
Sotto il profilo etico, da un parere espresso in materia di contenzione nel dicembre 1998 dal Comitato di bioetica dell’AUSL di Bologna si traggono le seguenti osservazioni: “nelle situazioni cliniche in cui una limitazione della libertà fisica può proporsi, emerge come frequentemente alla misura contentiva sovente si giunga a motivo di inadeguatezza di risorse assistenziali (personale, congiunti che accudiscano il malato, presìdi di ausilio,…). Occorre considerare sempre la intrinseca pericolosità delle misure contentive che, lungi dallo sminuire il carico assistenziale, determinano la necessità di una ancor più accurata sorveglianza.
In presenza di reale pericolo per il malato (es.: da movimenti inconsulti in portatore di CVC, di drenaggi …) o di pericolo che il malato può creare ad altri pazienti, il medico, valutata ogni alternativa assistenziale, se non intravede altra soluzione, può adottare il provvedimento contentivo, informandone i congiunti – ma senza subordinazione al loro assenso – e motivando la sua decisione in cartella clinica.
Il sacrificio dell’autonomia del paziente è eticamente accettabile, quale scelta residuale, solo se controbilanciato da una concreta beneficialità diretta al paziente medesimo oppure rivolta ad altri assistiti”. Sul rapporto tra norme giuridiche e discipline deontologiche ha avuto occasione di pronunciarsi il CNB, nel resoconto dell’attività dei suoi primi 15 anni (11) – 1990-2005 – , sostenendo che si tratti di “un rapporto tra piani sovrapposti, che in parte combaciano, in parte no. Il piano deontologico è superiore, ha una vista più ampia e più elevata, va oltre la prospettiva giuridica: laddove la legge mi impone di rispettare i confini della libertà dell’altro, la deontologia mi chiede di rispettarli, ma magari oltrepassandoli, ovvero interessandomi dell’altro in modo non comune.
Potrebbe essere questo il caso della contenzione, dove un’azione che nel resto della società è addirittura un reato, qui diviene un comportamento positivo, purché applicato nei limiti del rispetto della dignità della persona e nel suo interesse terapeutico. In questo “guardare oltre” è fondamentale che vi sia in sottofondo, che si senta sempre e comunque, l’interessamento verso l’altro dettato da valori profondi, professionali, non dal semplice senso del dovere; che vi sia la tensione a un impegno verso l’altro, piuttosto che il semplice non arrecargli danno …”.
Le questioni etiche connesse alla contenzione sono state oggetto di riflessione anche oltre confine. Il Nuffield Council on Bioethics inglese ne ha trattato in rapporto alla demenza in uno specifico report del 2009 (12) e, con richiamo alle previsioni del Mental Capacity Act del 2005 – vigente in Inghilterra e nel Galles – ha raccomandato un uso circoscritto alle sole situazioni in cui sia necessario per prevenire danni alla persona incapace, sempre che la misura sia proporzionata alla probabilità e alla severità del danno a cui il paziente potrebbe andare incontro.
Il Council, constatata la carenza di indirizzi puntuali, soprattutto riguardo a quel che può riguardarsi come mezzo proporzionato, ha poi caldeggiato l’adozione di guide che servano da ausilio per le decisioni dei professionisti.
In Francia, nel più volte citato documento Limiter les risques de la contention physique de la personne âgée si riconosceva:
• una sostanziale carenza di informazione in materia nel Paese;
• l’assenza di indicazioni operative e raccomandazioni specifiche nei programmi di formazione dei professionisti sanitari;
• una crescita rilevante del suo utilizzo, prevalentemente per prevenire le cadute e controllare stati di agitazione;
• l’esistenza di non pochi problemi eticogiuridici a essa correlati, in rapporto sia alla limitazione della sfera di libertà di una persona sia ai rischi conseguenti alla sua applicazione, specie se protratta nel tempo.
Dall’insieme degli elementi qua e là tratti si evince una sostanziale convergenza di opinioni relativamente alle condizioni richieste per ritenere legittimo un provvedimento contentivo.
Di fronte a una situazione non altrimenti controllabile, caratterizzata da concreto, significativo rischio per il paziente o per terzi (inclusi gli operatori sanitari), si impone sempre di valutare – e, se possibile, eseguire – ogni provvedimento alternativo alla misura contentiva, a cui ricorrere solo come extrema ratio, non essendo diversamente bilanciato il vulnus della limitazione della libertà del paziente.
Un uso non corretto della contenzione può integrare diverse forme di reato: dalla violenza privata all’abuso dei mezzi di correzione e di disciplina, dal sequestro di persona ai maltrattamenti, dalle lesioni personali alla morte come conseguenza di altro reato, all’omicidio.
Da proscrivere assolutamente una contenzione attuata per intenti di disciplina, di convenienza, di rappresaglia o di inadeguatezze del sistema assistenziale. Emblematica, a quest’ultimo riguardo, la sentenza 42645/2004 della Cass. Pen. sez. V, a proposito di medici che “ordinavano abitualmente di legare i pazienti ai letti come comoda misura ordinaria di contenzione giustificata dalla sola mancanza di personale sanitario sufficiente”. Sempre doverosa una corretta informazione del paziente, se in grado di intendere, volta a spiegare le ragioni del provvedimento proposto e a ottenerne l’accettazione.
L’informazione estesa anche ai familiari o ai caregivers può contribuire a una miglior relazione di cura. Uno studio ha evidenziato che anche i pazienti deliranti sottoposti a contenzione, più tardi, hanno ricordato le spiegazioni loro date dagli infermieri (14). Quando poi fosse lo stesso paziente, capace di intendere e volere, a chiedere una contenzione meccanica: spondine o altro mezzo, per sentirsi più sicuro, lo staff dovrebbe prendere in considerazione la volontà manifestata dall’assistito, cercare di comprenderne le ragioni, valutare le alternative realmente esperibili per superare il problema esposto e, solo se dalla valutazione rischi-benefici emergesse una prevalenza dei secondi, dovrebbe acconsentire.
Coerenti con l’impostazione su esposta sono anche gli Standards on Restraint and Seclusion/Nonviolent Crisis Intervention adottati negli USA da Joint Commission (15), secondo cui l’organizzazione deve usare la contenzione come ultima spiaggia, solo quando può essere clinicamente giustificata o se il comportamento del paziente minaccia la sicurezza sua, del personale o di terzi, senza consentirne, peraltro, una prescrizione al bisogno.
Pratica e sicurezza clinica
Da tempo si sono posti in discussione alcuni miti sulla contenzione, quale pratica volta a garantire protezione da cadute e lesioni, risparmio di tempo per il personale e riduzione dei costi dell’assistenza.
Per contro, sono stati documentati sempre più diffusamente eventi indesiderati (16, 17) che, seppur diversamente correlati al tipo di contenzione e alla durata della stessa, si sono manifestati come: lesioni nervose, riduzione del tono cardiovascolare e muscolare, riduzione della capacità respiratoria, riduzione della densità ossea, lesioni da pressione, depressione e comportamenti aggressivi, alterazioni cognitive, incontinenza urinaria, stipsi, strangolamento, incarcerazione tra le spondine del letto, morte.
La mancanza di robuste evidenze a supporto del ricorso alla contenzione meccanica, in aggiunta alle conseguenze negative e alla frequente indisponibilità di alternative concretamente attuabili (ad es: insufficienza di personale di assistenza, mancanza di figure parentali di fiducia…) rende complessa la decisione da adottare (18).
Per minimizzare il rischio di danni, si conviene in letteratura che occorra:
• curare la formazione del personale sanitario affinché disponga delle conoscenze e delle abilità necessarie;
• garantire la corretta applicazione dei mezzi: per la contenzione meccanica si devono utilizzare dispositivi ad hoc e non improvvisati (es.: lenzuola o bende ad altro destinati e adattati a uso contentivo), nel rispetto delle raccomandazioni del produttore;
• optare per la modalità meno restrittiva;
• ridurre il tempo di adozione del provvedimento contentivo quanto più possibile;
• controllare periodicamente il paziente.
Unanime l’avviso anche sul soggetto a cui rimettere la decisione del provvedimento contentivo: il medico responsabile del caso e, solo in sua assenza e per situazioni urgenti, i professionisti dell’assistenza, nel rispetto di regole cornice stabilite dai responsabili dell’organizzazione e con tempestivo avviso del medico responsabile.
La prescrizione medica del provvedimento dovrebbe essere registrata nella documentazione sanitaria del paziente, corredata quanto meno delle seguenti informazioni:
• motivazione;
• menzione dell’informazione fornita al paziente e della risposta ottenuta;
• valutazione ed eventuale attuazione di misure alternative;
• tipo di trattamento;
• come debba essere attuato: da parte di chi, dove, quando, con quali precauzioni…;
• durata e condizioni che ne determinano il venir meno;
• misure di sorveglianza da seguire;
• accertamenti (es.: saturimetria) e terapie (es.: antitrombotica) da attuare.
Il medico può demandare all’infermiere di interrompere la contenzione al venir meno delle condizioni che l’hanno indotta. Alla prescrizione dovrebbe seguire un accurato piano assistenziale, teso a monitorare il paziente per rilevare problemi ed eventi che suggeriscano una modifica del provvedimento in essere.
Medici e infermieri sono poi tenuti a documentare (con cronodatazione e firma o sigla) le valutazioni rispettivamente effettuate (controllo clinico, valutazione dei bisogni assistenziali…) e gli interventi attuati nel corso della contenzione nonché gli esiti della stessa (19, 20, 21, 22). In tal senso si esprime, ad esempio, la circolare 16/2009 della Regione Emilia Romagna, di disciplina delle contenzioni fisiche nei servizi psichiatrici di diagnosi e cura (13).
In derivazione dalla richiamata circolare, nell’Azienda USL di Bologna è stata adottata una procedura, specifica per l’ambito della degenza psichiatrica, nella quale si afferma che la contenzione meccanica richiede un’alta intensità assistenziale con necessità di:
• una verifica del permanere delle condizioni che l’hanno richiesta, di norma, a cadenza non superiore alle 2 ore;
• l’esecuzione di un iniziale prelievo ematico e di urina per i test di laboratorio di base e la ricerca di metaboliti di sostanze d’abuso; un ECG se vi è indicazione medica;
• la rilevazione di parametri vitali (pressione; frequenza cardiaca, saturimetria..) di norma ogni 2 ore, salvo diversa indicazione medica;
• la rilevazione dei bisogni assistenziali (eventuali alterazioni delle funzioni evacuative da segnalare tempestivamente al medico specie per le contenzioni protratte; atteggiamento alimentare: voracità, capacità di ingestione; postura, per prevenire possibili complicanze quali soffocamento o ab ingestis).
Se la contenzione dura più di 3 ore, va sempre instaurata la profilassi antitrombotica e reperita una via venosa per garantire idratazione, salvo diversa prescrizione medica. Un controllo medico della situazione complessiva del paziente va attuato con cadenza non superiore alle 3 ore e quando il personale infermieristico lo richieda, in ogni caso al cambio dell’équipe clinicoassistenziale. In aderenza alle indicazioni poste dalla regione, è stato istituito un registro delle contenzioni su cui sono riportate gran parte delle informazioni annotate nella documentazione dell’assistito.
Una revisione periodica delle misure contentive è attuata con il coinvolgimento di tutto il personale dell’unità operativa interessata e, per le contenzioni che si protraggano oltre le 24 ore va data segnalazione al direttore sanitario e al direttore di dipartimento, in funzione di una riconsiderazione ravvicinata del caso. Ogni 6 mesi tutte le contenzioni devono poi essere riesaminate da un apposito gruppo di lavoro interdisciplinare. Interessanti suggerimenti pratici sono presenti nel più volte menzionato documento Limiter les risques de la contention physique de la personne âgée nonché nell’ulteriore elaborato dell’ANAES: Liberté d’aller et venir dans les établissements sanitaires et médicosociaux, et obligation de soins et de sécurité (14) del 2004.
Un’ulteriore fonte di spunti di riflessione è data anche dal report dell’audit clinico condotto dalla HAS nel 2006, in tema di riduzione delle contenzioni meccaniche nelle persone anziane (15).
Per raggiungere l’obiettivo di una contrazione delle misure contentive, perché davvero divengano ovunque un intervento eccezionalmente necessitato, occorre una strategia d’approccio non improvvisata16 (23, 24). Prima di ogni altro intervento, si pone la promozione di un contesto culturale favorevole, in presenza di una convinta determinazione dei responsabili della struttura interessata, con apertura al confronto con i pazienti e i loro familiari e rappresentanti.
Al di là delle conoscenze e delle abilità dei singoli professionisti nella gestione dei provvedimenti contentivi – da acquisire e mantenere attraverso adeguati momenti formativi e di aggiornamento – vanno attentamente considerati gli aspetti organizzativi, per l’influenza derivante da fattori strutturali e dalla dotazione di personale una cui inadeguatezza quantitativa rappresenta un indubbio ostacolo. Una sistematica rilevazione delle pratiche contentive e degli effetti negativi da essa derivanti va posta in essere per avere sempre il polso del fenomeno e poter intervenire prontamente in senso migliorativo.
Casistica
Una carrellata di esempi che possono aiutare a riconoscere i sottili confini delle contenzioni ammissibili è contenuta nel citato documento del RCN: Let’s talk about restraint. Rights, risks and responsibility (7).
Eccone una sintesi, adattata.
1) A seguito di ricovero in Unità di terapia intensiva coronarica, per problema cardiaco, una paziente sviluppa un’alta pressione arteriosa e viene prescritta sedazione. La sedazione, in tal caso, non ha carattere contentivo bensì è diretta a trattare la patologia: si tratta quindi di un supporto a un trattamento sanitario.
2) Post ricovero per un problema cardiaco, un paziente con demenza non riesce a orientarsi e si muove in continuazione. Dopo 2 notti senza riposo, le sue gambe sono diventate molto edematose e si teme che le condizioni cardiache peggiorino. Si prescrive sedazione. La sedazione è da riguardarsi come una misura contentiva, in quanto diretta a controllare il comportamento del paziente, seppure giustificata sul piano etico e legale.
3) Un anziano ospite di una residenza assistenziale non riesce a riposare la notte e si aggira per la struttura cercando la moglie. Per il personale è difficile sostenere tale situazione e si chiede al medico di prescrivere sedazione. In tal caso, la sedazione si profila come un trattamento contentivo difficilmente giustificabile in quanto avrebbero dovuto essere tentate altre soluzioni (rassicurare il paziente, stargli vicino e parlargli…).
4) Dopo una serie di strokes, un’anziana paziente di un reparto di riabilitazione ha bisogno di assistenza e di un sollevatore per uscire dal letto. Non è in grado di esprimere le sue necessità; la notte non riposa, ha spasmi muscolari ed è a rischio di caduta dal letto. Gli infermieri mettono spondine per evitare la caduta. In tal caso, non si tratta di contenzione in senso proprio perché le sponde non mirano a limitare i movimenti volontari o le azioni che la paziente voglia compiere, bensì i movimenti involontari che potrebbero metterla in pericolo.
5) Un’anziana paziente di una lungodegenza, post frattura di femore da caduta, non è stabile nei movimenti. I familiari temono che un’altra caduta potrebbe esserle fatale e chiedono di mettere le sponde al letto, di notte, in quanto la signora vuole alzarsi da sola per andare in bagno. Si tratterebbe di trattamento di contenzione difficilmente giustificabile perché potrebbero essere cercate alternative…
6) Sara lavora in una residenza per anziani dove è ospite la Sig.ra Verdi, affetta da morbo di Alzheimer, tranquilla e apparentemente contenta di essere là. L’ospite ha un po’ di febbre e viene richiesta visita medica. Nel frattempo, la signora diventa molto agitata e vuole uscire dalla struttura, pensando di essere giovane e di avere lasciato i figlioletti a casa soli. Sara ha cercato di rassicurarla e ha telefonato alla figlia chiedendole di raggiungere la madre ma l’ansia della paziente la porta a respingere l’infermiera e a voler uscire a ogni costo. Sara prevede che, se la lasciasse uscire, non sarebbe in grado di provvedere a sé stessa e si procurerebbe danni. Impedire alla paziente di uscire viola il suo diritto di libertà, ma questo deve essere valutato alla luce del rischio di danno che può verosimilmente derivarne. Sara decide di impedire l’uscita. Per ridurre il disagio della paziente, chiama una collega perché la accompagni a fare un giretto, in attesa della figlia, rassicurandola che i suoi familiari sono al sicuro a casa. Comportamento giustificato.
Autore: dr.ssa Gabriella Negrini
Articolo pubblicato nella Rivista “Professione Infermiere” n.3/2013 (pag.39-47) del Collegio IPASVI di Bologna
Fonte editoriale: “Rischio Sanità” n. 49/2013
© RIPRODUZIONE RISERVATA
BIBLIOGRAFIA
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23) Sclafani M.J et al. Reducing Patient Restraints: a Pilot Approach Using Clinical Case Review. Perspective in Psychiatric Care; 2008, 44, N1: 32-39.
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Foto in copertina Ospedale Corbineau, un’equipe medica intorno ad un ferito (Courtesy Arte nella Grande Guerra) tratta dal link http://www.rsi.ch/rete-due/programmi/cultura/geronimo/Storia/L’odio-e-la-pietà-3112282.html