Il fenomeno dei Social Network ha creato nuove forme di condivisione e ha velocizzato enormemente il crearsi di legami in rete, da un lato procurando vantaggi indiscussi in termini di visibilità a chi aveva difficoltà relazionali -nell’era pre-social-, dall’altro creando fenomeni di patologia (dipendenza da internet, fenomeni di ritiro sociale e alienazione, cyberbullismo, il fenomeno haters, etc.).
Il fatto di poter creare un profilo finto, in cui si assume l’identità di qualcuno che si ammira, innesca un gioco di ruolo che può spingersi fino al sentire emozioni -vere- riguardanti il personaggio fake che si utilizza. Emozioni di segno positivo o negativo, gioia per il riconoscimento che altri vip fanno su di noi, dolore per separazioni o storie d’amore -totalmente artificiali, ma dietro alle quali ci sono ragazzi veri, che sentono e si identificano al proprio «avatar» con passione e genuinità-, dai risvolti complessi, che innescano importanti riflessioni dal punto di vista sociologico.
E’ indubbio che non solo l’identità virtuale (connessa all’utilizzo dei Social) abbia fatto irruzione sulla scena della psicologia (clinica e non); il fatto poi che l’identità virtuale sia modificabile, e plasmabile a piacimento, ha conferito ai fruitori rinnovato potere di espressione e generato forme nuove di creatività nella gestione dei rapporti interpersonali, mediati da Internet e in particolare dai profili Social. L’identità virtuale ha preso definitivamente posto al tavolo dei nostri diversi «io», per così dire, insieme a ciò che siamo nell’intimità, ciò che siamo da soli, ciò che siamo di fronte agli altri, ciò che siamo sul lavoro.
La dipendenza dal proprio avatar, come spiega A., 17enne di Torino, può arrivare a conseguenze che trasformano la vita quotidiana in modo consistente. «Con queste dinamiche ci si crea una vita propria, una famiglia, amici e tutto sembra più reale di quanto in realtà non sia. Ci si chiude in questo mondo, confondendolo con quello reale. Persone che a 30 anni fanno ancora parte di questo mondo, donne, uomini. […] Io ho buttato due anni della mia vita, rimanevo chiusa in casa giorno e notte, l’estate non uscivo. Mi limitavo a «vivere» davanti ad un computer che però mi permetteva di vivere una vita che era perfetta. O quasi.
All’interno col passare del tempo, così come nella vita reale, si vengono a creare dispiaceri, litigi. Ho conosciuto per mia fortuna anche persone che iniziavano a pensarla come me e piano piano, ma anche drasticamente siamo riuscite ad uscirne».
Come spesso succede in questi casi, la presa di coscienza di quanto la qualità del proprio tempo e delle proprie relazioni sia alterata dal perpetrarsi dei comportamenti -compulsivi- di ritorno all’oggetto della propria dipendenza, conduce a una presa di posizione lenta ma inesorabile (quando le cose vanno bene) che allontana la persona dal problema, restituendola alla vita reale.
Questo fenomeno si configura come un qualunque altra dipendenza, con lo stesso potere immersivo e seducente. La differenza sta negli effetti collaterali, non tanto fisici, quanto psicosociali. Come si legge, il rischio è rappresentanto da un progressivo allontanamento dalla propria quotidianità e soprattutto, come in queste forme nuove di dipendenza, dalla rinuncia a utilizzare il proprio corpo, teatro di tutto ciò che di veramente importante ci possa capitare in vita. Il recupero della dimensione corporea in senso allargato (relazioni, affetti, divertimento, passioni o dolori incarnati) è una possibile via da intraprendere per restituire alla propria vita reale il giusto peso e la giusta priorità, con tutti i rischi, ma anche i vantaggi, che questo comporti.
fonte www.lastampa.it