Gli ultimi fatti di cronaca ci ricordano che un cuore può fermarsi, arrestarsi improvvisamente. Evento talmente poco raro che si stima che il 10% dei decessi derivi proprio da arresto cardiaco. Trasformando il dato in numeri, sono circa 50.000/60.000 morti l’anno. L’alta mortalità è data sopratutto dal fatto che non si hanno segni precoci evidenti. E così, tra pensieri medievali e chiacchiere urlate da bar, iniziamo a capire cosa e come fare ma sopratutto chi deve fare per ridurre al minimo i danni.
Bisogna agire meccanicamente per mantenere l‘afflusso di ossigeno all’organismo e la pompa del cuore, quindi massaggio cardiaco, tenendo presente che per ogni minuto che passa senza ricevere alcun intervento la percentuale di sopravvivenza si riduce del 10 per cento. Per ripristinare la corretta attività elettrica del cuore è necessario operare mediante un defibrillatore. Se si interviene con questo strumento entro 5 minuti dall’arresto cardiaco, il paziente ha una percentuale di sopravvivenza del 50%, mentre se non viene trattato la percentuale scende al 2%. Ecco perché è fondamentale attivarsi per dotare ogni impianto sportivo e luogo pubblico in genere di defibrillatori semi-automatici, in grado cioè di poter essere usati anche da personale non specializzato.
Questo scrive il sito www.cardiochirurgia.com, che pone l’accento su una questione spinosa e che sta creando non pochi imbarazzi tra commissioni scientifiche e Ordine dei medici. In pratica, stando ai dati e al tipo più corretto di intervento precoce, risulta che non è importante e necessario avere un medico in ogni luogo ad alta frequentazione, come invece fortemente sostenuto dalla sezione felsinea dell’ Ordine dei medici e alcuni sindacati di categoria, ma di personale laico adeguatamente formato e con un DAE (defibrillatore automatico esterno) a disposizione e funzionante. Si rende così necessario creare una cultura del soccorso, un’educazione ad intervenire precocemente e tempestivamente.
Detto questo, a smontare il caso di cronaca recentemente avvenuto presso l’aeroporto Marconi di Bologna, ovvero di un paziente affetto da una grave patologia in fase evolutiva sono i dati oggettivi della vicenda:
Il primo a soccorrerlo, con massaggio cardiaco, “è stato l’addetto all’assistenza dei passeggeri a ridotta mobilità dell’aeroporto, che stava accompagnando il passeggero”. L’ambulanza, precisano ancora l’azienda sanitaria e l’aeroporto, è giunta sul posto alle 9.11, cioè “otto minuti dopo l’attivazione da parte della centrale operativa 118 Emilia est”. Gli operatori hanno “attivato immediatamente il defibrillatore”, che però ha “evidenziato un ritmo cardiaco non defibrillabile”. Quindi sono state “praticate subito le manovre rianimatorie, proseguite anche dopo l’arrivo dell’auto medica, alle 9.25″. Due minuti dopo “è stato constatato il decesso”. http://bologna.repubblica.it/cronaca/2017/03/24/news/paziente_di_68_anni_morto_per_arresto_cardiaco_all_aeroporto_di_bologna-161308304/
Da precisare che l’Aeroporto Marconi di Bologna, ha un presidio fisso h 24 composto da una ambulanza del 118 con due operatori, un Infermiere esperto in gestione delle emergenze ed in tecniche di rianimazione ed un autista soccorritore, per garantire il primo soccorso in emergenza nell’area aeroportuale e l’attività ambulatoriale. L’infermiere si avvale inoltre, delle opportunità offerte dalla telemedicina e può quindi inviare elettrocardiogrammi direttamente alle Terapie Intensive coronariche del territorio, consultare il cardiologo o il medico 118 territoriale. La convenzione rispetta in ogni caso, le linee guida ENAC sui requisiti di servizio.
Dai dati forniti da Aeroporto Marconi Bologna, sono state 160 le emergenze in media per anno, con intervento del medico, in media, in soli 10 casi. Nel biennio 2012-2013, quando il servizio non era ancora affidato all’Azienda USL di Bologna, è stato necessario ricorrere comunque all’intervento del 118 in 301 casi su 321 complessivi.
Autore articolo: dr. Armando Santostefano, Infermiere specialista di Elisoccorso – Centrale Operativa 118
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