La Sla è una patologia neurodegenerativa ad esito fatale che determina nelle persone colpite una debolezza muscolare progressiva ed un’insufficienza respiratoria che viene attribuita principalmente ad anomalie e alterazione dei motoneuroni, i neuroni che ‘comandano’ il movimento dei muscoli.
I ricercatori della Sapienza, invece, sono partiti dall’ipotesi che anche le cellule muscolari, oltre a quelle nervose, siano coinvolte nell’evoluzione della malattia, trovando riscontri in questo senso attraverso analisi molecolari e, ora, anche attraverso la sperimentazione clinica.
Il punto di partenza è un esperimento che ha coinvolto 93 pazienti con patologie legate alla denervazione nervosa, di cui ben 76 affetti da sclerosi laterale amiotrofica (Sla). Tutti i pazienti sono stati seguiti presso il Centro Malattie Neuromuscolari Rare diretto dal professor Maurizio Inghilleri.
“Il punto di forza del nostro studio- spiega la fisiologa Eleonora Palma- è la sua natura traslazionale, resa possibile dalla forte sinergia tra clinica e ricerca di base e dal fatto che presso il Policlinico Universitario sono attualmente seguiti circa 260 pazienti. La ricerca biomedica in Sapienza si muove ‘from bench to bedside’, cioè ‘dal bancone del laboratorio al letto del paziente’, ma anche viceversa: informazioni che arrivano dal laboratorio vengono tradotte in strumenti utili da applicare al paziente, cioè alla pratica clinica di tutti i giorni, ma è altrettanto vero che le informazioni dai clinici ci offrono conferme e spunti di riflessione”.
Un primo risultato dei ricercatori della Sapienza di Roma è stato quindi quello di dimostrare che nei muscoli dei soli pazienti Sla il recettore dell’acetilcolina, responsabile della contrazione muscolare, è risultato alterato per un’aumentata espressione della subunità alpha. Tale aberrazione riduce di conseguenza la sensibilità alla stimolazione da parte dell’acetilcolina comportando una riduzione dell’efficacia contrattile dei muscoli.
“Siamo arrivati a questa affermazione- prosegue Palma- con una tecnica particolarmente innovativa che consiste nell’impiantare le membrane muscolari dei pazienti nell’ovocita di una rana sudafricana, che ha la capacità di ‘fondere’ ed ‘esporre’ le proteine native del paziente sulla propria membrana”.
Sul recettore AChR un endocannabinoide (PEA), che in un singolo paziente aveva prodotto risultati incoraggianti, ha mostrato un miglioramento della funzionalità del recettore in seguito a stimolazioni ripetute. Si è proceduto quindi sulla base della sperimentazione in laboratorio a testare il PEA in pazienti affetti da Sla. Rispetto a pazienti non trattati, quelli a cui è stato somministrato il PEA hanno mostrato una riduzione del declino respiratorio. “In ciascun individuo normalmente i muscoli soggetti a stimolazione continua- prosegue il neurologo Maurizio Inghilleri- riducono nel tempo la propria risposta, cioè si desensibilizzano.
La nostra ipotesi è che il PEA, associato alla terapia standard, renda il recettore AChR più funzionale potenziando conseguentemente la contrazione di alcuni tipi di muscoli. Ovviamente non possiamo dire che funzioni in assoluto, ma ad esempio nel nostro studio il PEA sembra in grado di migliorare il lavoro dei muscoli respiratori”.
Purtroppo non esistono ancora farmaci o terapie capaci di modificare l’andamento della malattia, ma lo studio indica “chiaramente il coinvolgimento muscolare nella Sla suggerendo ulteriori possibili interventi terapeutici”, concludono i ricercatori.
Fonte: Dire (www.dire.it)