Dal deragliamento di Murazze di Vado, nel ’78, fino al terremoto dell’Emilia, una vita per immaginare e costruire il sistema delle emergenze. Marco Vigna, uno dei padri del 118, va in pensione. Di seguito un’intervista pubblicata sul sito dell’Azienda Usl di Bologna.
“In Friuli, i soccorsi erano gestiti dall’esercito, le tende e gli ospedali da campo erano quelli riciclati dalla guerra in Corea, le informazioni arrivavano dai radioamatori. Oggi è cambiato fortunatamente tutto, sono cambiati i tempi di intervento e quelli necessari a conoscere dettagliatamente la situazione e le risorse che occorre mettere a disposizione”.
Cosa hai pensato di fronte alle immagini del terremoto che in questi giorni ha colpito l’Italia centrale?
Non credevo di dover assistere, prima di concludere il mio percorso professionale, ad un’altra tragedia di questo genere. Ho affrontato varie esperienze di questo tipo, e mi sono ritrovato a rivivere gli stessi problemi e gli stessi drammi, a cominciare dal terremoto del Friuli. Tutto ciò mi ha fatto riflettere, e mi ha anche angosciato. Dal punto di vista dell’organizzazione sono cambiate molte cose. In Friuli c’era solo l’esercito a garantire i soccorsi, io ero lì come volontario. La situazione era precaria, c’erano tende e ospedali da campo riciclati dalla guerra in Corea. A dare le informazioni erano i radioamatori. Ora la situazione è completamente diversa, e noi partecipiamo a pieno titolo come sistema 118. Oggi il 118 dispone di una rete efficiente, interconnessa con istituzioni e associazioni, ed è capace di una rapidità di azione elevatissima: nel giro di pochissimo sappiamo dove si sono svolti gli eventi, siamo in grado di stimarne l’entità, attiviamo le risorse necessarie. E’ un sistema che ci riconosce tutto il mondo.
Che cosa ha consentito di migliorare la risposta alle emergenze?
Un elemento fondamentale, che ha cambiato lo scenario nazionale, risale al 1990, quando sono state attivate le Centrali Operative 118, nate sulla base dell’esperienza bolognese ed emiliano- romagnola. Le Centrali Operative richiedono grande conoscenza del territorio, dotazione di risorse, utilizzo delle tecnologie più avanzate, interconnessione con associazioni e istituzioni, numero unico. Disporre di notizie, trasferire le informazioni, comunicare in tempo reale, coordinare i mezzi: il cuore del sistema, che rende possibile una grande capacità di flessibilità e adattabilità, indispensabili quando si è di fronte ad un evento della portata di un terremoto, sono proprio le Centrali Operative.
E come è cambiato il ruolo dell’infermiere nelle emergenze?
Non c’è dubbio che dal 1980 il protagonista della organizzazione (e della riorganizzazione) della risposta è stato proprio l’infermiere, elemento che è stato riconosciuto successivamente dal Decreto che ha istituito, nel 1992, il 118. In quegli anni gli infermieri si misuravano ancora con strumenti arretrati, come il mansionario. Nella organizzazione della risposta alle emergenze, invece, il nostro ruolo e la nostra autonomia furono pienamente riconosciuti. Poi c’è stata una evoluzione significativa, anche dal punto di vista assistenziale, accompagnata anche da una forte crescita della componente medica. Oggi ci sono ancora differenze rilevanti tra regione e regione, e il fatto che non ci sia uno standard nazionale crea forti tensioni con alcuni Ordini dei Medici. Il rischio, per gli infermieri, è di arroccarsi a difesa dell’esistente, perdendo slancio rispetto alla spinta all’innovazione che, invece, ha sempre caratterizzato il nostro ambito professionale. Sono sicuro che questo problema sarà superato, ma oggi è un elemento di fatica. Aggiungo che il mio percorso straordinario, anche personale, di crescita, è stato reso possibile da stretta collaborazione e condivisione con la componente medica, rappresentata da professionisti che hanno contribuito a realizzare innovazioni fondamentali per il nostro Paese, sostenendo il ruolo fondamentale della professione infermieristica nella organizzazione della risposta alle emergenze. Il saper fare squadra ha consentito il successo dell’esperienza bolognese nell’area dell’emergenza.
Quali sono stati gli episodi che ti hanno segnato maggiormente?
Ovviamente gli elementi scolpiti nella memoria sono le tragedie che più ci hanno colpito. A partire da Murazze di Vado (uno dei più gravi indicenti ferroviari avvenuti in italia dal dopoguerra ad oggi, ndr). All’epoca eravamo ancora in condizioni organizzative primordiali, e quel disastro ferroviario è stato una spinta importante, anche personale, per organizzare qualcosa di nuovo e di più efficace.
L’altro avvenimento è stato la strage del 2 agosto 1980. Avevamo 250 persone da ospedalizzare, con qualche idea nata proprio dall’esperienza negativa di Murazze. In poco tempo riuscimmo a ricoverarle e a programmare l’assistenza, anche se ancora in assenza di qualunque integrazione tra reparti (neurochirurgia, ortopedia, chirurgia) che si trovavano in ospedali diversi. Quei 250 feriti dovevano, infatti, non solo essere ospedalizzati in tempi ragionevoli, ma anche trasferiti da un ospedale all’altro per gli interventi del caso. Riuscimmo a fare il miracolo, con la forza della disperazione. Fu una giornata di 72 ore, ma a livello nazionale venne riconosciuta la qualità e l’efficacia del nostro intervento. Le istituzioni presero coscienza della possibilità di migliorare, e già in occasione di quella maledetta giornata del 23 dicembre ‘84 (la strage del Rapido 904, ndr) riuscimmo ad essere più tempestivi ed appropriati negli interventi, nonostante fossimo distanti da Bologna, visto che la galleria all’interno della quale esplose la bomba si trovava nei pressi di San Benedetto Val di Sambro. Da lì cominciammo a pensare ad un modello per l’integrazione di tutti gli interventi all’interno di un sistema unico, che ci condusse nell’87 alla realizzazione della prima centrale integrata. Il modello fu validato successivamente, e divenne legge nel ‘92. La Centrale Operativa di Bologna adottò il 118 come numero unico con due anni di anticipo.
Poi ci furono l’aereo finito sulla scuola di Casalecchio (6 dicembre 1990, 12 morti e 5 feriti, ndr), il deragliamento del treno di Crevalcore (7 gennaio 2005, 17 morti, ndr), i terremoti, ultimo quello dell’Emilia, per il quale ho rivestito il ruolo di responsabile sanitario per tutto il periodo dell’emergenza.
Insomma, posso dire di aver avuto una vita professionale scandita da grandi tragedie, ma anche di aver partecipato alla crescita del sistema. Abbiamo potuto contare, sempre, sul sostegno delle Istituzioni, che hanno creduto nella possibilità di introdurre innovazioni in grado di dare al sistema maggiore efficienza. Penso che si possa dire, guardando retrospettivamente, che si sia trattato di una fiducia ben riposta.
Come ti definiresti? Sei stato un infermiere, un organizzatore, un operatore dell’emergenza?
Sono un centodiciottista. Dentro questa parola c’è tutto, una aggregazione di soluzioni, competenze organizzative e assistenziali. Il 118 è una buona immagine, sintetica, probabilmente unica nel suo genere. Con un numero rende l’idea di una grande complessità, adattabilità a diverse esigenze, rapidità di attivazione ed intervento. La mia vita professionale è raccolta, essenzialmente, in quel numero.