Riassunto
Sono stati considerati tre importanti capitoli per ricostruire la storia della Tubercolosi (TB):
1) Le evidenze paleo patologiche
2) Storia e sviluppo delle conoscenze
3) Storia ed evoluzione dell’assistenza sanitaria ai malati di TB
Nel primo paragrafo, attraverso una ricerca bibliografica, si è stabilito da quanto tempo la specie umana deve fronteggiare l’infezione tubercolare e quale è la provenienza. Molto probabilmente già nel paleolitico l’uomo era interessato dal contagio, le comunità di cacciatori- raccoglitori entrarono in contatto con il micobatterio quando, cacciando i bovini selvaggi, dovevano poi macellarli. Sicuramente alla fine del periodo mesolitico e all’inizio del neolitico, quando si affermò la prima domesticazione dei bovini, il contatto divenne più stretto e continuo ed aumentarono le possibilità di contagio. Le attestazioni su scheletri retrodatati fino 7-8 000 anni fa sono relativamente numerose, in particolare è possibile rilevare i classici reperti di interessamento del rachide (Morbo di Pot) in mummie egizie ed in soggetti vissuti in Italia durante il neolitico. In America del Sud sono stati rilevati identici reperti in mummie pre-colombiane e ciò sta a dimostrare che la TB non è stata portata nel nuovo mondo con la sua scoperta, ma coinvolgeva gli amerindi prima del viaggio di Colombo. Ricerche effettuate utilizzando tecniche biomolecolari (PCR) hanno confermato che si trattava nei casi citati di infezione da Micobacterium tubercolosis, pertanto oggi si può affermare con certezza che l’homo sapiens convive con l’infezione tubercolare da molti millenni. Una recente scoperta, avvenuta in Turchia, avrebbe dimostrato, in un cranio appartenuto ad un homo erectus retrodatato a 500 000 anni fa, la presenza di granulazioni all’interno della scatola cranica, che riproducono aspetti tipici della meningite tubercolare.
Nel secondo paragrafo si è ripercorso, necessariamente in maniera sintetica, il sentiero tracciato dalle più importanti scoperte scientifiche che dal XVI secolo hanno portato ad un sempre maggiore sapere sulla tubercolosi; Fracastoro, Bernardino Ramazzini, Morton, Bayle, Laennec, Louis, Jean Antoine Villemin, Robert Kock, Madame Curie, Forlanini, sono i grandi scienziati che, grazie ai loro studi, hanno aperto la strada della conoscenza sui meccanismi patogenetici e sulle basi infettive microbiologiche della TB.
Nel terzo paragrafo si è infine delineato il percorso che dalla fine del XVII secolo è stato fatto per organizzare l’assistenza ai malati di tubercolosi. La comprensione della necessità di isolare i malati, per evitare il contagio (Lucca 1699), il raggruppamento dei malati in zone separate dell’ospedale (Napoli 1776), la necessità di trasportare i malati in lettighe speciali che tutelavano gli addetti al trasporto (Napoli 1783) e poi la nascita, a metà dell’Ottocento, dei primi sanatori montani in Germania, in Svizzera, in Inghilterra ed in Italia sono i capisaldi su cui si è costruita l’organizzazione dell’assistenza. In seguito, nel XX secolo, la costruzione della rete dispensariale per l’assistenza e la prevenzione della diffusione del contagio, costituì il passo decisivo che tra le due guerre e poi al termine del secondo conflitto, consentì un significativo miglioramento della dimensione epidemica.
Premessa
La tubercolosi ha arrecato all’umanità da millenni danni importanti sia in termini di morbilità che mortalità, questi danni si sono accentuati da quando le aggregazioni umane nei centri urbani sono divenute più consistenti dal punto di vista demografico. Con le prime manifestazioni proto industriali ed in seguito, nell’Ottocento, con la Rivoluzione Industriale e con la colonizzazione nei nuovi continenti che progressivamente erano toccati dalla civilizzazione europea, la diffusione globale è diventata sempre più un problema sanitario coinvolgente larga parte delle popolazioni europee e dei nuovi continenti.
Oggi la TB è la malattia infettiva più diffusa al mondo e interessa specialmente i Paesi in via di Sviluppo e i paesi emergenti come Cina, India, Paesi del Sud Est Asiatico, Brasile e Sud Africa. In sintesi si può affermare che la pandemia tubercolare costituisce un blocco importante per il decollo economico e per lo sviluppo sociale per alcuni miliardi di persone. Vista l’importanza del ruolo svolto dalla TB nel condizionare lo sviluppo dell’umanità gli studiosi si interessano non solo ai complessi aspetti epidemiologici, diagnostici e terapeutici che riguardano questa malattia, ma volgono la loro attenzione alla ricostruzione della sua storia ed ai tentativi di interpretazione scientifica che sono stati compiuti per svelarne le cause.
Un interesse intrigante è quello che i paleo patologi hanno sviluppato all’interno della comunità scientifica, dopo che Sir Marc Armand Ruffer, nel 1921, descrisse il primo caso di TB ossea in una mummia vissuta più di 3.000 anni fa (1). Da quella data, grazie anche alle nuove tecniche biomolecolari e radiologiche (figura 1), è stato possibile stimare da quando l’umanità si deve confrontare con questo problema. Oggi, alla luce dei contributi scientifici degli ultimi anni, si è autorizzati a pensare che la retrodatazione del coinvolgimento dell’uomo da parte dell’infezione tubercolare è tuttaltro che definita.
E’ possibile che nuove scoperte archeologiche e paleo antropologiche, unitamente all’affinamento delle tecniche immunologiche e bio molecolari, possano fornire ulteriori sorprese, spostando indietro ulteriormente (dal periodo paleolitico) la lancetta del coinvolgimento umano. Infine la storia dei primi tentativi di assistenza ai malati suscita un particolare interesse in quanto si intreccia con l’evolversi della visione epistemologica sulla malattia tubercolare. Tutto inizia con il pensiero religioso medievale: ai Re Taumaturghi Franchi era riconosciuto un potere terapeutico che costoro esercitavano mediante l’apposizione delle mani sul capo dei malati; per questo motivo folle di malati scrofolosi si affidavano a loro nella speranza di guarire. In seguito, nel XVI secolo, Fracastoro, seppure sprovvisto di uno strumento che gli consentisse di studiare il mondo microscopico immagina, con un’ intuizione strabiliante, l’esistenza di una entità che chiama seminaria contagiorum, come responsabile della tisi.
La storia dell’assistenza ai malati e dei tentativi di ridurre il contagio mediante misure contumaciali nei confronti dei tisici, si intreccia con il confronto scientifico, tra le due tesi contagionista e anti-contagionista, che per un lungo periodo ha diviso il mondo scientifico. Questa contrapposizione comportava riflessi importanti sulle politiche sanitarie che venivano implementate per ridurre l’impatto epidemico. Obbiettivo di questo articolo è quello di soffermarsi su questi tre argomenti, che costituiscono capitoli fondamentali per ricostruire la storia della tubercolosi.
Le evidenze paleopatologiche
La transizione dalla primitiva economia, caratterizzata dalla caccia e raccolta, verso un’economia più strutturata, ove la produzione di cibo era dovuta alla domesticazione di animali e piante (cereali), ha influito sensibilmente sulla qualità della vita dell’uomo e conseguentemente ha permesso un sensibile incremento demografico. Questa crescita di popolazione si è inizialmente realizzata nelle civiltà più ricche ed evolute, fiorite nel territorio medio-orientale compreso tra i bacini del Tigri ed Eufrate, la penisola anatolica, la regione corrispondente agli attuali Palestina-Siria-Libano e l’Egitto.
L’incremento demografico ha permesso che limitati settori “aristocratici” della popolazione potessero specializzarsi e dedicare la propria vita ad attività speculative di tipo intellettuale e speculativo (religiose, politiche, artistiche, filosofiche, studio della matematica e della trigonometria non ché all’osservazione della natura), mentre la rimanente popolazione continuava ad essere dedita ad attività manuali e mercantili. Questi processi di specializzazione, sempre però collegati all’intera popolazione che costituiva il motore produttivo ed economico, ha consentito il fiorire delle arti, delle religioni e l’introduzione delle prime innovazioni tecnologiche (ruota, carro, tecniche marinare, tecniche irrigatorie agricole, rotazione delle coltivazioni, metallurgia, ecc.). Il concentrarsi della popolazione in aree aggregative favorevoli, lungo i corsi dei fiumi, sulle rive del Mediterraneo, ove gli scambi economici godevano di particolari vantaggi ha infine permesso che i primi nuclei di civilizzazione che si andavano a formare potessero entrare in contatto. Tutto ciò permise una più facile circolazione delle idee e delle innovazioni tecnologiche. Se questi furono gli indubbi effetti positivi, dettati dall’introduzione della zootecnia e dall’agricoltura, vi furono aspetti che potremmo definire, con una definizione entrata ormai nel linguaggio comune, effetti collaterali che arrecarono nuovi problemi alla popolazione che si andava espandendo sul pianeta. In particolare con la zootecnia cominciarono a circolare numerosi microrganismi pericolosi per l’uomo, il cui ospite naturale era la specie bovina; in particolare quelli che ebbero il maggiore impatto sulle primitive aggregazioni umane furono, a partire dalla fine del periodo Mesolitico e poi con sempre maggiore peso durante il Neolitico, il virus del vaiolo ed i germi responsabili della brucellosi e della tubercolosi. Secondo studi di retrodatazione genomica il ceppo ancestrale, da cui si sarebbe originato il M. tuberculosis umano, il M. africanus (ancora oggi isolato in soggetti viventi in Africa occidentale) ed altre varianti di micobatteri che colpiscono gli animali, sarebbe il M. prototuberculosis. (2) Questo antenato comune ancestrale si sarebbe originato in Africa occidentale circa 40 000 anni fa, quando le popolazioni di Homo sapiens (dedite alla caccia ed alla raccolta) stavano iniziando la loro migrazione da questo continente verso l’Asia, l’Europa e poi, proseguendo, intorno a 20.000 anni fa verso l’Australia ed infine, circa 15.000 anni fa, attraverso lo stretto di Boering verso le Americhe.
La prima scoperta certa di infezione da M. tuberculosis in mammiferi sarebbe stata attestata dal riscontro del suo DNAa nei resti di un bisonte vissuto circa 17 000 anni fa (3), è pertanto verosimile che già i primi cacciatori, intenti a macellare le loro prede possano avere avuto un primo contatto con il micobatterio. In questa fase le possibilità di diffusione da uomo a uomo erano più limitate, seppure potenzialmente possibili, in quanto gli aggregati umani rimanevano molto ridotti e le piccole comunità vivevano sostanzialmente isolate su vasti territori. Premesso che la paleopatologia umana è una branca dell’anatomia patologica che si occupa di studiare su resti antichi scheletrici e su mummie (artificiali e naturali) la presenza di malattie di natura infettiva, tossicologica, genetica, degenerativa e carenziale, queste indagini possono essere eseguite, in una fase iniziale, al tavolo settorio, proseguite poi mediante studi istologici e, molto recentemente, approfondite con tecniche biomolecolari. Inoltre per eseguire indagini non invasive su mummie avvolte in bendaggi o rinchiuse in preziosi sarcofagi di legno di valore artistico i ricercatori hanno a disposizione la tomografia assiale computerizzata, che mediante “tagli” radiologici e successive ricostruzioni consente di ottenere immagini “anatomiche “ad altissima definizione.
Come già anticipato il primo riscontro paleo patologico di tubercolosi si deve a Sir Marc Armand Ruffer che nel 1921 pubblicò al Cairo la scoperta, in una mummia egizia, di un ascesso localizzato a livello del muscolo psoas, associato ad un morbo di Pot (gibbo tubercolare); questa mummia presentava inequivocabilmente le classiche lesioni della colonna vertebrale (1). Si trattava dei resti del sacerdote Nesperhan, vissuto circa 3 000 anni fa (XXI dinastia) (figura 2).
In seguito lo studio sistematico non solo dei resti umani egizi, ove già il quadro macroscopico deponeva per TB ossea con localizzazione vertebrale (figura 3), ma anche indagini eseguite su soggetti ove non erano evidenti tali reperti, mediante puntuali ricerche biomolecolari, hanno consentito di stabilire che la malattia era relativamente diffusa nella valle del Nilo nel periodo in cui fiorì questa civiltà (4,5,6). In particolare nel 2001 è stato pubblicato un lavoro ove venivano presentati i dati relativi ad uno studio su 37 scheletri provenienti da Tebe Ovest, datati ad un tempo che va dal 2150 al 500 a.C. e 4 provenienti da Abidos, vissuti intorno al 3 000 a.C.. In 30 dei 41 casi analizzati è stato estratto il DNAa del M. tuberculosis. Non solo è stato dimostrato DNA specifico in soggetti con lesioni ossee, compatibili con TB, ma anche in soggetti con lesioni dubbie e in due senza alterazioni ossee. Sulla scorta di questi dati è possibile dedurre che la TB fosse relativamente frequente nell’antico Egitto (7, 8). Uno studio più recente eseguito su materiale ritrovato in un sito archeologico oggi sommerso, ubicato sulla costa israeliana del Mediterraneo, mediante tecnica biomolecolare convenzionale, ha consentito di stabilire che una donna ed un neonato vissuti circa 9.000 anni fa avrebbero sofferto di tubercolosi (9).
Questa indagine avrebbe confermato che l’infezione tubercolare coinvolgeva persone viventi in un villaggio affacciato sul Mediterraneo orientale ove si pratica l’agricoltura e la zootecnia in tempi molto remoti. Che Africa, Asia e Europa siano stati coinvolti dalla diffusione della TB in successione rapida, mano a mano che l’incremento demografico e la civilizzazione dell’umanità si rafforzava grazie al passaggio alla zootecnia e agricoltura, è evidente. Risulta meno chiaro stabilire quando l’infezione tubercolare si è diffusa alle Americhe. L’identificazione di DNA specifico di M. tuberculosis in una mummia preColombiana mummificatasi spontaneamente e vissuta circa 1.000 anni fa, ha permesso di chiarire inequivocabilmente che prima del viaggio del Genovese, le Americhe erano già coinvolte nell’epidemia tubercolare (10). Come è noto sono disponibili mummie Sud americane (ritrovate nel deserto di Atacama) retrodatate a circa 9.000 anni dall’oggi.
Forse in futuro potrà essere possibile chiarire quando l’infezione tubercolare è giunta nel Nuovo Mondo.
Per ora, sulle basi delle evidenze paleo patologiche è solo possibile supporre che il passaggio sia avvenuto quando durante una delle ultime glaciazioni, grazie all’unione della punta estrema della Siberia Nord-orientale con l’Alaska, tribù di nomadi siberiani riuscirono a raggiungere il continente americano. Tale supposizione deve essere comunque supportata da evidenze bio-molecolari e paleo patologiche. Sembrerebbe, alla luce di quanto pubblicato dagli autori citati, tutto “relativamente” chiaro, però recentemente, è stata data comunicazione che i resti fossili di un ominide (Homo erectus), vissuto nella Turchia occidentale circa 500.000 anni fa (Pleistocene medio), presentavano sulla faccia interna di due frammenti dell’osso frontale, un quadro macroscopico compatibile con aspetti che ricordano la leptomeningite tubercolare (11).
Se tale reperto fosse confermato ci sarebbe l’evidenza che la malattia tubercolare coinvolgeva i nostri antenati ominidi in ere in cui ancora l’Homo sapiens non era comparso. Purtroppo analisi di tipo molecolare non sono praticabili su resti fossilizzati così antichi. Alla luce di queste brevi note si può comprendere quanto le conoscenze siano in movimento e quanto siano subordinate ai nuovi ritrovamenti archeologici e antropologici. Concludendo è opportuno prevedere che anche la paleontologia umana aiuterà nello studio delle malattie che hanno coinvolto le specie di ominidi precedenti l’Homo sapiens. Come abbiamo visto il riscontro suggestivo di leptomeningite tubercolare nei fossili di Homo erectus ritrovati in Turchia, ha contribuito ad allargare le nostre conoscenze paleo patologiche, proponendo una retrodatazione del coinvolgimento umano per la TB a circa 50.000 anni fa.
Storia e sviluppo delle conoscenze
Ripercorrere la storia dello sviluppo delle conoscenze che hanno portato al sapere attuale sulla TB è compito non facile. Le conoscenze e le pratiche assistenziali hanno risentito del costume e del “comune pensare” dell’umanità nel corso del tempo; è pertanto necessario che il lettore contestualizzi le notizie che ora ci accingiamo a proporre facendo uno sforzo d’inquadramento storico. Prerogativa del Re Franco Clodoveo (1), dopo la sua conversione al Cristianesimo il 24 dicembre del 496 d.C., era la facoltà di guarire le scrofole con il tocco della mano destra, quale segno tangibile dell’avvenuta consacrazione (figura 4). Questo costume si protrasse fino al regno di Carlo X. Ai tempi di San Luigi IX, i re francesi si preparavano alla cerimonia mediante una serie di pratiche religiose, poi “toccavano” migliaia di malati.
E’ interessante sottolineare che la Corona risarciva i pellegrini malati per le spese relative al vitto ed al viaggio. Anche i Re d’Inghilterra nel periodo in cui detennero anche la corona di Francia conservarono questa “sacra” ritualità, estendendo tale prerogativa alle Regine, inoltre ci fu il trasferimento di questa sacra prerogativa anche oltre Manica. La Regina Elisabetta Tudor fece chiamare la scrofola Morbo della Regina, mentre nei trattati di medicina la malattia veniva denominata Morbus Regius. Ancora nel 1609 Andrea De Laurens, in un volume a titolo De mirabilis sanandi vi, accetta e conferma questo potere concesso al re per grazia divina (12). Nella medesima opera l’Autore, definiva la scrofola come malattia contagiosa ed ereditaria (13), ciò ebbe in seguito una ripercussione significativa nell’organizzazione dell’assistenza.
Nel XVII secolo cominciano le prime osservazioni concepite con criteri scientifici. Bernardino Ramazzini (1633-1714) osserva per primo che la tisi era frequente tra i lavoratori e tagliatori di pietra, sia per i vapori corrosivi che venivano prodotti durante la lavorazione sia per l’inalazione del pulviscolo. In precedenza, con un’intuizione geniale, Girolamo Fracastoro (ca. 1483- Fig. 4 – Battesimo di Clodoveo capostipite della Dinastia Franca dei Merovingi. 1553) (figura 5) aveva postulato che esistevano corpi viventi invisibili, seminaria contagiorum, caratterizzati da specificità per le singole affezioni, che avevano anche la pecularietà di presentare “simpatia” per quegli individui in cui trovavano un terreno costituzionale idoneo all’attecchimento. Fracastoro si spingeva ad affermare che il contagio si sarebbe realizzato per via diretta o per mezzo di un agente intermedio, subito o dopo qualche tempo. Secondo questo studioso la trasmissione si poteva realizzare anche a distanza attraverso l’aria e l’acqua e, considerazione interessante,
le cause del contagio non andavano attribuite a fattori occulti o metafisici. Infine questi seminaria contagiorum invisibili avevano un’affinità elettiva per il polmone (14). Riteniamo importante sottolineare che Fracastoro non poteva contare sul microscopio, inoltre il mondo microbiologico, così come si è andato a palesare nel XIX secolo grazie agli studi di Pasteur, era ancora lontano da essere pensato. Purtroppo queste importanti intuizioni non vennero prese nel giusto riguardo dal mondo accademico scolastico, ancora impastoiato in elucubrazioni metafisiche e filosofiche, ove l’osservazione scientifica era vista con sospetto e sottoposta al giudizio severo della Santa Inquisizione. Già nel 1537 Giovan Battista Montano (1468-1550), nel suo Consulationes, aveva scritto che era opportuno evitare lo sputare sulle mura o sul letto, in quanto anche solo l’appoggio del piede nudo sullo sputo di un tisico avrebbe causato la malattia (13). In questo periodo si affermano le prime osservazioni di carattere epidemiologico. Il Settala, nel suo Commentario ad Aristotele, riportava un caso di infezione interconiugale, mentre il Valleriola attribuiva al contagio le morti osservate in membri della stessa famiglia. Paolo Zacchia nel suo Questiones Medico-legales (1601) asseriva che la convivenza matrimoniale poteva dare luogo alla trasmissione della malattia (13).
Se il mondo accademico appariva impermeabile alle osservazioni di carattere epidemiologico, più attento era il ceto politico ed amministrativo. Il popolo, principale bersaglio della tisi, stimolava i governanti con richieste legittime. La gente comune avvertiva sempre più prepotentemente il problema in quanto le attività proto industriali e l’inurbamento favorivano l’aumento dei malati e ciò rendeva palese la diffusione del contagio. Per questo motivo si cominciarono a varare, nel corso dei secoli XVII e XVIII, provvedimenti di sanità pubblica indirizzati alla prevenzione del contagio 2 (15). Da un punto di vista scientifico il mondo medico era diviso su due posizioni. Esisteva una scuola più moderna denominata contagionistica, che si andava affermando sulla spinta delle osservazioni pratiche ed una corrente di pensiero più tradizionalistica, che valorizzava la tesi orientata a credere che i fattori determinanti nell’influenzare lo sviluppo clinico della tisi fossero le predisposizioni ereditarie e/o acquisite (3).
Abbiamo accennato al limite di non potere contare, in quel periodo storico, su di uno strumento come il microscopio, indispensabile per lo studio delle malattie infettive. E’ però importante ricordare che erano già in atto i primi tentativi per costruirne uno. In Olanda nel 1590, nel laboratorio degli ottici Hans e Zacharias Jansen, padre e figlio, fu concepita la prima idea di “microscopio composto”, così chiamato perché si trattava di un cannocchiale rovesciato, dotato di due lenti convesse, con quella con il fuoco più corto usato come obiettivo. Sulla base di questa prima invenzione, nel 1609, Galileo Galileo (1584-1642) perfezionò un “perspicillum”, munito di un oculare biconcavo e di un obiettivo convesso. Grazie a questo strumento era possibile, come Egli scrisse, osservare “la mirabile struttura delle parti e membra degli insetti”; fu poi Giovanni Faber (1574-1629) a battezzare il perspicillum di Galilei microscopio. Ma in questa fase il microscopio continua ad essere poco più di una curiosità con cui era possibile, al massimo, svelare il segreto che consente alle mosche di camminare sulle pareti e sui soffitti.
Il salto di qualità si realizzò grazie al contributo di Antoni van Leeuwenhock (1632-1723); questo olandese inventa un sistema per molare e lucidare le lenti con particolari curvature, tale perfezionamento consentì al microscopio di migliorarne la potenza, tanto da raggiungere poco meno di 300 ingrandimenti. In seguito l’inglese Robert Hooke (1635-1703) perfezionò ulteriormente lo strumento e condusse numerose osservazioni su organismi molto piccoli. Con la ripresa degli studi anatomo-patologici alla fine del Seicento, grazie anche alle osservazioni al microscopio di Marcello Malpighi (1628-1694), a cui si deve la descrizione della struttura anatomica di rene e polmone, le conoscenze crebbero notevolmente. In Gran Bretagna, affrancata già da tempo dalle ingerenze dell’Inquisizione ed ove il pensiero scientifico empirista godeva di maggiore libertà, Richard Morton (1637-1698) nel 1689, stabiliva che la TB polmonare era associata alla presenza di tubercoli. Più di un secolo dopo, nel 1810, grazie all’estendersi delle pratiche autoptiche in tutta Europa, veniva chiarito da Gaspar Laurent Bayle (1774-1816) che i tubercoli potevano essere rilevati anche in organi diversi dal polmone. Questo Autore parlava di forme diffuse a tutto l’organismo o di “TB miliare”.
Nel 1819, Théophile H. Laennec (1781-1826) proponeva un inquadramento nosografico della malattia, che Egli vedeva collegata ad una infezione. Questa posizione era però contrastata da Francois Broussais (1772-1838); l’Autore riteneva i tubercoli espressione di una reazione infiammatoria, pertanto non sarebbero stati il prodotto specifico dell’infezione. Nel dibattito si inseriva Louis che, supportato da ben 167 autopsie, dimostrò che i tubercoli erano veramente conseguenza di una produzione specifica e a suo parere, l’infiammazione avrebbe avuto un ruolo accessorio. Nei primi decenni del XIX secolo, con la spinta dettata dal nuovo pensiero medico frutto del pensiero illuminista, si realizzò una ripresa dello studio oggettivo del malato e della malattia. E’in questo momento che si pongono le basi della semeiotica medica e del metodo analitico nello studio del malato. Un contributo fondamentale alla conoscenza medica fu dato sempre da Laennec. Egli perfezionò la
tecnica della percussione toracica, inoltre mediante l’invenzione dello stetoscopio fu possibile un ulteriore sviluppo della semeiotica. I malati vengono ora visitati e ci si accosta a loro con un’attenzione ed una sensibilità sociale diversa. L’influenza della rivoluzione, dettata dal pensiero illuminista, aveva portato a mettere l’uomo malato, il paziente, al centro dell’interesse dei medici, inoltre era cresciuto anche l’impegno sociale della classe medica 4. I riflessi nei confronti di una malattia come la TB, ove le inferenze sociali erano enormi, furono indubbiamente molto importanti. Il 5 dicembre del 1865 Jean Antoine Villemin (1827-1892) (figura 6) comunica all’Accademia di Francia che la TB era causata da un agente specifico, da Lui chiamato virus. Il suo disegno sperimentale lo aveva portato ad inoculare nel coniglio materiale tubercolare (caseum, escreato, pus proveniente da linfonodo) di origine umana e animale, ottenendo dopo alcune settimane, lesioni tubercolari.
Egli aveva così dimostrato la specificità della malattia, concludendo che poteva essere attribuibile ad un agente inoculabile. Tre anni dopo si affermò il riconoscimento sociale della malattia tubercolare. Sempre Villemin pubblicava il suo saggio: “Etudes sur la tubercolose. Preuves rationalles et experimentales de sa specifité”.
L’Autore in questo saggio scientifico aggiunse importanti considerazioni di carattere epidemiologico facendo notare che la malattia era più frequente negli agglomerati urbani industriali più affollati e nei distretti minerari. Inoltre veniva reso noto che in regioni indenni prima della colonizzazione, coma la Nuova Zelanda, l’Australia e l’Oceania la malattia era comparsa con l’avvento dei coloni europei, provocando vere e proprie stragi tra gli indigeni. Se gli studi di Louis Pasteur (1822- 1895) hanno creato le basi per l’affermarsi della microbiologia e quindi le indispensabili premesse per la scoperta del micobatterio, la scoperta dell’agente etiologico della TB è ascrivibile solo al rigore scientifico di Robert Kock (1843-1910) (figura 7). Il grande tedesco approntò nuove metodiche di coltivazione sia su terreni solidi, sia su terreni trasparenti e giunse ad applicare anche la microfotografia alle sue scoperte. Il 25 marzo del 1882, intervenendo a Berlino all’Annuale Assemblea della Società di Fisiologia Tedesca, Robert Kock presentò le sue ricerche.
Egli era riuscito a coltivare il germe, grazie ad un’incubazione di 10-12 ore a 37° C, utilizzando come terreno nutritivo del siero ottenuto da sangue di bovini sani appena macellati. Se la ricerca microbiologica con la scoperta di Kock aveva compiuto un passo enorme, anche il mondo dei medici pratici negli stessi anni segnava un significativo progresso.
Il 23 agosto del 1882, cinque mesi dopo la comunicazione del Tedesco, Carlo Forlanini (1847-1918) proponeva il trattamento della TB con il pneumotorace terapeutico, che veniva definito dall’Autore collasso terapia. Forlanini aveva osservato che i pazienti che sviluppavano, come complicanza della malattia polmonare, un pneumotorace andavano meglio degli altri ed un alcuni casi non progredivano irrimediabilmente. La tecnica da Lui proposta consisteva pertanto nell’insufflare nello scavo pleurico aria, mediante un ago collegato a due recipienti di vetro, in modo da fare collassare gradualmente il polmone e così si metteva a riposo l’organo per un congruo periodo.
La figura n 8 consente di apprezzare l’apparecchio utilizzato da Forlanini. Anche la nascente chirurgia toracica portò in questa fase il suo contributo. Nel 1876 Jakob A. Eastlander (1831- 1881) eseguì la prima resezione costale sottoperiostea (toracoplastica) in corso di empiema pleurico cronico. Nel 1883 Theodor Tuffer (1831-1881) realizzò la prima pneumolisi extrapleurica in un soggetto che aveva presentato un’importante emottisi. Lo stesso anno Giuseppe Ruggi (1844- 1925) (figura 9) a Bologna effettuava la prima resezione polmonare per TB cavitata (15). Da un punto di vista diagnostico la scoperta di Kock non solo consentì di stabilire la stretta relazione tra l’infezione da micobatterio, la malattia clinica ed il riscontro anatomo-patologico, ma permise anche di realizzare la produzione, lavorando su un filtrato di colture di bacilli tubercolari di un composto di tossine che il grande tedesco chiamò tubercolina.
Questo principio attivo, una volta iniettato sottocute in modesta quantità, in soggetti che avevano avuto un contatto con il micobatterio, dava luogo ad una reazione eritemato-papulosa circoscritta, che testimoniava l’avvenuta infezione anche in soggetti in buona salute, oltre che in individui con la malattia in atto.
Potendo contare su questo semplice strumento diagnostico fu possibile sviluppare inchieste epidemiologiche estese, oltre che porre la diagnosi di TB in soggetti che sul piano clinico presentavano tutte le stigmate della malattia. Il XIX secolo si chiude con una scoperta eccezionale per il progresso medico in generale ed in particolare per la diagnostica della Tubercolosi. Il 28 dicembre 1895 Wilhehim Conrad Roentgen (1845-1923) (figura 10) dà l’annuncio ufficiale della scoperta dei raggi X. Il 12 aprile del 1898 M.me Marie Sklodowska Curie (1867-1934) riferisce all’Accademia delle Scienze di Parigi sulla sua scoperta del Polonium-Radium.
Con la nascita della radiologia diagnostica l’interno del corpo umano può ora essere “fotografato”, la diagnosi radiologica di tubercolosi polmonare è possibile, ed è possibile correlarla al riscontro puntuale del micobatterio nell’escreato e in altri liquidi biologici (sangue, urine, sperma). Probabilmente è con lo studio del distretto polmonare che si realizza una delle prime massiccie introduzioni della diagnostica radiologica in medicina (figura 11). La vicenda delle scoperte scientifiche fondamentali collegate alla TB s’interrompe per circa mezzo secolo, riprenderà con la realizzazione della streptomicina e degli altri antibiotici utili nella cura di questa malattia.
Storia dell’assistenza ai malati
La storia dell’assistenza ai malati s’intreccia con la storia delle conoscenze scientifiche, mano a mano che queste crescevano sempre più significativi erano i provvedimenti che venivano pensati per assistere i malati. Con il passare del tempo, grazie alla maturazione della consapevolezza che si trattava di una malattia infettiva ad impatto sociale, si sviluppò in diversi paesi una normativa sanitaria tesa a ridurre il rischio di trasmissione dell’infezione.
Al fine di prevenire il contagio della tisi polmonare nel 1621 il Magistrato di Sanità di Padova vietò agli Ebrei 5 di comprare mobili, biancheria, letti, ecc. provenienti da persone decedute per questa malattia, senza la licenza dell’Ufficio di Sanità e sotto pena di un’ammenda di 50 ducati (16). In Francia, dopo l’ammissione del De Laurens (1609), che vedeva nei pazienti con scrofola la possibilità di essere fonte di contagio, sorse a Reims nel 1645 l’Ospedale di San Marcul, creato solo con lo scopo di accogliere i malati portatori di scrofola. Purtroppo questa antesignana iniziativa non ebbe un seguito nella nazione forse in quel momento più potente ed avanzata d’Europa.
A Lucca, nel 1699 si ravvisò la necessità, al fine di prevenire i danni derivati “dalle robe, che restano dopo la morte di persone infette di etisia e altri (morbi) simili”, di convocare il Collegio dei Medici. Lo stesso anno, dopo che il Collegio dei Medici aveva redatto l’elenco delle persone tisiche, nonché le sospette, i Conservatori di Sanità ordinarono misure di espurgo, autorizzando i medici ad eseguire autopsie per studiare la causa di malattia. Nel 1733, nella stessa Città si adottò l’obbligo di denuncia da parte dei medici curanti, chiedendo la collaborazione dei famigliari per la pratica di provvedimenti profilattici, come la disinfezione, in caso di morte o di mutamento di alloggio del tisico, associando anche il divieto di commercio degli effetti personali dei malati. Questi poi, in base alle disposizioni sarebbero stati isolati in un reparto speciale.
Quattro anni dopo le stesse misure furono adottate nella città spagnola di Valencia. I riflessi del dibattito scientifico a cui abbiamo fatto brevemente cenno nel paragrafo precedente si palesarono chiaramente a Firenze. La necessità di programmare una profilassi pubblica era l’oggetto della diatriba; la domanda che si pose il Collegio Medico Universitario verteva sulla seguente questione: la tisi è o no contagiosa? Si discusse molto, ma sul problema del “contagio” si rimase sul vago. I provvedimenti presi nell’incertezza furono i soliti, ovvero quelli che si adottavano usualmente in tempo di peste, ma non si andò oltre.
A Venezia invece nel 1722 si andò un poco oltre, in quanto si stabilì l’obbligo di denuncia della malattia, limitatamente ai casi con esito infausto e veniva impedita la vendita degli effetti personali dei deceduti, se non fossero stati “espurgati”. Tra il 1733 e il 1734 le Municipalità di Bologna, Ferrara e Roma adottarono i provvedimenti varati a Venezia. Nel 1776 a Napoli, Domenico Cirillo (1739-1799) cominciò a raggruppare i tisici in una sala separata dell’ospedale, mentre in precedenza, nel 1772, una commissione di sette medici della Facoltà di Medicina aveva presentato una relazione al Governo in cui si chiedeva che il Tribunale della Sanità ordinasse la denuncia di tutti i tisici senza eccezione di classe sociale. Napoli era all’avanguardia in Italia ed in Europa e grazie alla collaborazione di Cirillo con Domenico Cotugno (1736- 1822), si giunse nel dicembre del 1782 all’emanazione delle ”Istruzioni al pubblico sul contagio della tisichezza”.
Grazie a queste disposizioni l’anno seguente i poveri venivano trasportati in ospedale mediante lettighe e fu destinata una prima sala per tisici nell’ospedale dedicato solamente a questi malati. Sempre nel Regno di Napoli, a Siracusa, l’anno seguente fu progettato un fondo per l’istituzione di un Monte, dotato di un capitale di 100.000 ducati destinati al soccorso dei poveri colpiti da tisi; inoltre erano istituiti sussidi indirizzati ai proprietari di case ove avevano dimorato i malati con l’obbiettivo di effettuare gli opportuni interventi igienici. Questa si può definire storicamente come la prima iniziativa a carattere sociale (13).
E’ interessante notare che questa normativa, varata a sostegno dei pazienti tisici e dei loro parenti e congiunti, costituì la prima legge specifica in ambito socio-sanitario. Se la tesi contagionista, una volta accettata dalle autorità pubbliche presupponeva una spesa sociale ed un impegno per il tempo non trascurabile, la tesi anti-contagionista, che favoriva gli argomenti che vedevano nella predisposizione famigliare la causa principale per lo sviluppo della malattia, fu strumentalmente adottata da quelle amministrazioni che osteggiavano un intervento pubblico, implicante anche un impegno finanziario. La paura di essere coinvolta nei provvedimenti contumaciali, previsti da quelle amministrazioni che attribuivano al contagio infettivo un ruolo nella diffusione della tisi, incuteva timore però alla cittadinanza dedita ai commerci, che si vedeva inibita nel muoversi liberamente in Italia.
Nella Penisola da diversi secoli, i numerosi stati autonomi durante le epidemie di peste, si rinserravano impedendo l’entrata nelle città mediante cordoni sanitari rigidi. Il danno economico, con l’andar del tempo, divenne alto e presto si dovette cambiare politica. Nel 1783 le misure adottate a Firenze furono revocate, modificate in senso moderato a Napoli, ed abolite dai Francesi a Venezia nel 1793. Sopravvissero invece i provvedimenti di sanità pubblica istituiti a Roma e a Milano (14). Vi era un motivo preciso per cui nella realtà dei fatti queste misure erano fallite. Non conoscendo la causa della malattia e le modalità del contagio, venivano adottati provvedimenti indirizzati a prevenire la diffusione di malattie contagiose acute, come la peste, mentre occorreva un’organizzazione comprensiva di assistenza sociale e di normative atte a prevenire il contagio, per una malattia che presentava la peculiarità di essere cronica e con andamento subdolo. A parte qualche caso le manifestazioni cliniche erano, seppur altamente debilitanti, non frequentemente vistose nelle fasi iniziali in soggetti che, altrimenti, erano contagiosi.
Nei primi 50 anni del XIX secolo in Inghilterra, in Francia e in Germania gli “effetti collaterali” della Rivoluzione Industriale si fecero sempre più acuti. Inchieste come quella fatta da Friederich Engels (1820-1895) sulle “Conditions of the Working Class in England” ponevano in risalto le cattive condizioni di salute dei lavoratori ed individuavano tale disagio nello sfruttamento selvaggio a cui erano sottoposti in città ove l’inurbamento massivo dalle campagne costringeva masse di proletari (termine coniato per distinguere chi possedeva solo la sua prole) a vivere in abitazioni sovraffollate (18). Nei paesi industrializzati più avanzati, grazie a studi epidemiologici, si era osservato che le probabilità di contrarre la tisi era direttamente correlata al sovraffollamento ambientale sia nel luogo di lavoro, sia nelle abitazioni.
Frequentemente nello stesso ambiente dormivano e vivevano durante il giorno, in stretta contiguità, tutti i membri della famiglia. Kurgler calcolò il rapporto fra densità abitativa e mortalità per TB: quanto maggiore era il numero di stanze abitate (per mille abitanti) tanto minore era la percentuale di deceduti a causa della TB (19). Inoltre nelle città europee la qualità dell’aria si andava rapidamente deteriorando a causa di un inquinamento industriale selvaggio. La penuria alimentare, collegata anche all’esplosione demografica registrata in quegli anni, causava in numerosi soggetti un difetto di apporto di energia a cui si sommava l’eccesso di dispendio energetico secondario al superlavoro. Engels nel suo studio non solo indicava chiaramente il nesso esistente tra arretratezza e malattia, ma si spingeva anche a cogliere lo stadio successivo ovvero l’interdipendenza esistente tra malattia e progresso (18). Per quanto riguarda i tentativi di cura, negli anni quaranta del XIX secolo si brancolava nel buio; si raccomandavano, per i pazienti più abbienti, passeggiate a cavallo in quanto si era visto che il movimento sussultorio imposto dal trotto del cavallo favoriva l’espettorazione, inoltre i soggetti malati riacquistavano un poco di appetito dopo le passeggiate all’aria aperta.
Un curioso tentativo fu effettuato tra il 1838 e il 1845 dal Dottor John Croghan (1790-1849). Egli era proprietario della Mammuth Cave (Kentucky-USA), avendo osservato che l’aria in questa grotta era particolarmente pura e la temperatura costante vi trasferì un gruppo di tisici, sperando che in queste condizioni climatiche potessero essere curati; il risultato fu disastroso in quanto morirono tutti e il motivo era semplice: i pazienti non potevano giovarsi dell’esposizione ai raggi del sole che rimaneva uno dei pochi presidii utili per contrastare la tisi. A metà del XIX secolo, pur non possedendo evidenze scientifiche, si era largamente fatta strada la consapevolezza che i malati di tisi miglioravano la loro salute se, abbandonato l’ambiente urbano, si trasferivano in zone rurali e meglio ancora se in montagna. Cominciarono così a sorgere i primi sanatori. Nel 1858 a Bournemounth (figura 12), nel Regno Unito, ne entrò in attività uno e l’anno seguente venne indetta una sottoscrizione per ottenere fondi per il suo mantenimento.
Questa informazione la possiamo desumere da una pubblicità apparsa sul Times del 15 gennaio del 1859. In Germania a Gorbersdorf, nel 1859 fu aperto da Herman Brehmer (1826- 1889) un primo sanatorio, inizialmente costituito da un piccolo gruppo di cottage, in seguito questo si estese e giunse ad ospitare fino a 300 posti letto. I malati rimanevano in questi luoghi isolati per lunghi periodi, venendo sottoposti a regimi alimentari ipercalorici. In Italia, il dottor Giuseppe Barellai (1813-1884) (figura 13), nel 1862 fondò a Viareggio il primo ospizio per bambini portatori di scrofola, nella convinzione che l’aria salso-iodica del mare apportasse benefici, specialmente delle forme ghiandolari tubercolari ulcerate. Circa un secolo prima, nel 1756, era uscito a Londra il volume The use of voyages in medicina and particularly in a consumption che ebbe un buon successo di pubblico nel Regno Unito (20). Che l’aria di mare potesse dare un certo giovamento nei pazienti affetti da tisi erada tempo noto anche in Italia. Già nel 1750 era uscito il saggio Dei bagni di Pisa di Antonio Cocchi (21) e sulla scorta di questa pubblicazione i medici toscani indirizzavano i pazienti più facoltosi verso i soggiorni marittimi in Versilia. Nella seconda metà dell’Ottocento l’arco alpino fu prescelto per fondare diversi sanatori, in Svizzera, Francia, Italia, Austria e Germania. Si trattava in alcuni casi di aggregazioni di edifici e si giunse, per esempio a definire la cittadina di Arco di Trento La Città dei sanatori (figura 14).
Anche località marittime con clima particolarmente salubre come Sarzana, in Liguria, vennero prescelti come sede di sanatori. Queste strutture ospedaliere venivano edificate in luoghi ameni, ben areati, con ottime esposizioni solari, gli ambienti erano luminosi e le stanze ove i pazienti alloggiavano presentavano un’ottima disponibilità di metri cubi per singolo paziente. Questi edifici erano forniti di terrazze coperte ove i malati respiravano aria pura, mentre venivano esposti per ore ai raggi del sole, anche nella stagione invernale. Il vitto era garantito sia in termini quantitativi che qualitativi ed i malati, non raramente, rifiorivano anche se non potevano contare su terapie antibiotiche efficaci sul micobatterio. Sul finire dell’Ottocento ed all’inizio del XX secolo i paesi europei con legislazioni sanitarie più avanzate si attrezzarono con reti sanatoriali diffuse sul territorio, si cercava così non solo di curare i malati, ma anche di allontanarli dai contesti famigliari e sociali ove avrebbero comunque diffuso il contagio. Di frequente si trattava di giovani pazienti che, sradicati anche per anni dal loro ambiente, finivano per diventare dei veri e propri casi sociali in quanto, ammesso che la malattia si fosse arrestata, avrebbero avuto in seguito un difficile reinserimento.
Anche da questo punto di vista, seppure con le limitazioni dettate dalla cultura sociale del tempo, si tentava, quando era possibile, un reinserimento. Questo reinserimento era difficoltoso perché la malattia era vissuta nella società con una forte connotazione negativa, era ormai dimostrata la pericolosità del contagio e l’evidenza che i mezzi terapeutici disponibili erano inefficaci. In Italia ad emulazione di paesi più avanzati, come la Germania, che si erano attrezzati con legislazioni avanzate già intorno agli anni ottanta del XIX secolo, la rete sanatoriale fu istituita più tardi. Nel nostro paese solo dopo il primo conflitto bellico mondiale l’impegno divenne reale, con l’istituzione di una rete sanatoriale collegata ai dispensari anti tubercolari. L’Organizzazione per la lotta alla TB fu una realtà che incise nel ridurre l’impatto epidemico della TB, ma solo intorno al 1930 se ne cominciarono ad intravedere i risultati (figura 15). Nel 1945, a causa dei gravissimi disagi, conseguenza di cinque anni di guerra, si rilevò una ripresa dell’epidemia che forse le inchieste statistiche, a causa dei problemi organizzativi del periodo, non riuscirono a definire (per difetto) con la dovuta precisione. Le migliorate condizioni economicosociali e l’avvento della streptomicina, a partire dagli anni cinquanta del secolo scorso, migliorarono sensibilmente la situazione con una rapida discesa dal 1955 in poi, raggiungendo tassi molto modesti nel ventennio dal 1970 al 1990. Basando questa scelta sul trend epidemiologico favorevole, a partire dal 1970 la rete sanatoriale e dei dispensari fu smantellata.
Oggi che, anche a causa dell’incremento dei flussi migratori, le segnalazioni di casi sono in ripresa è la dimostrazione che il problema in Italia sussiste e la tubercolosi è un problema sanitario tutt’altro che risolto. E’ necessario ricordare che dopo le discutibili scelte strategiche operate, oggi i malati di tubercolosi vengono ricoverati prevalentemente nei reparti di malattie infettive, ove non possono essere garantite quelle condizioni favorevoli di accoglienza offerte dalle vecchie strutture sanatoriali.
Note
1 – Clodoveo (466-571 d.C) fu il fondatore della Dinastia dei Merovingi. La sua conversione al Cristianesimo coincise con la conversione dei Franchi.
2 – Nel terzo paragrafo presenteremo un excursus sui primi e più significativi provvedimenti adottati.
3 – Nel prossimo paragrafo vedremo quale influenza ebbe l’una scelta o l’altra sulle normative di legge che le diverse amministrazioni pubbliche adottarono nel corso dei secoli XVII e XVIII .
4 – Ricordiamo l’impegno dei medici in Italia sia nelle lotte risorgimentali (molti di loro erano massoni e garibaldini), sia con l’Unità nelle battaglie politiche a favore delle classi subalterne.
5 – All’epoca agli ebrei in diversi paesi europei erano interdette alcune attività professionali, oltre che inibita la disponibilità di accumulare beni immobili, le uniche attività tollerate erano quelle mercantili. In tempo di pestilenza il loro ruolo assumeva un peso particolare per la raccolta dei beni lasciati dai defunti. Per questo motivo durante il Medio Evo in occasione di riaccensioni epidemiche furono attribuite agli Ebrei responsabilità nella diffusione della peste e furono per questo vittime di persecuzioni e di veri e propri progrom
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21) Cocchi A. Dei Bagni di Pisa. 1750, Firenze.
Autore Dott. Sergio Sabbatani Unità Operativa di Malattie Infettive – Policlinico S. Orsola – Malpighi.
Articolo pubblicato nella Rivista “Professione Infermiere” del Collegio IPASVI di Bologna, n.2/2011, pag.50-59
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Foto in copertina: La Miseria di Cristóbal Rojas (1886). L’ autore, affetto da tubercolosi, dipinge gli aspetti sociali della malattia, e la sua relazione con le condizioni di vita alla fine del diciannovesimo secolo. https://it.wikipedia.org/wiki/Storia_della_tubercolosi